Il grande Fonzi’

Un post scritto su un gruppo Facebook da un ascolano che risiede all’estero mi ha riportato alla mente uno dei personaggi ascolani che io abbia stimato di più. Mi piace ricordarlo qui, in pubblico, ed è l’amico Fonzì. Sì, amico nonostante appartenessimo a generazioni diverse. Era amico di mio padre, così come di tanti altri padri dei ragazzi con cui andavo nel suo locale (tipica la frase che rivolgeva sempre al mio amico Pietro quando quest’ultimo faceva il matto: “Attente Girardi che i’ cunosche pàrtete!“).

Famosissimo perché da lui si mangiava con 12.000 lire. Finì pure sul giornale come locanda a più buon mercato del centro Italia. E poi non è che ti dava due boccolotti, con 12.000 lire ti dava i tortellini, la cotoletta, le patatine e ti passava pure da bere. Un mito assoluto della nostra gioventù, sempre allegro, sempre disponibile, un ascolano verace che parlava in dialetto e ci faceva pisciare sotto per le risate.

Con i Nerkias (al tempo eravamo compagni di scuola) siamo andati decine di volte a mangiare da lui, e sulle tovaglie di carta scrivevamo i testi delle canzoni che ci uscivano a cena, molte delle quali poi sono finite nei nostri album. E se alla fine della cena ciavevi 10.000 lire, faceva una faccia noncurante e ti faceva lo sconto (“Vabbè pure 10.000 dài, nn’ié magnate cósa…“, fingeva), pure se papà lavorava all’Enel e, cazzarola, 2.000 lire in più me li petié pure dà (ma io magari ci avevo comprato un disco). Credo di dovergli ancora una cifra non inferiore alle 50.000 lire.

Poco accondiscendente nei confronti di chi gli parlava entusiasticamente dell’affascinante figliola Cinzia (gli cambiava lo sguardo), era invece fraterno con chiunque entrasse nel suo locale, dove non esisteva il LEI ed eri sempre accolto con un sorriso: “Ciao Piccioni, come sta pàrtete?“). E a chiunque sia entrato direttamente in cucina, con lo sguardo basso, nel corso degli anni non è mai stato negato un pasto auffa (tipica la frase di Fonzì: “Pe’ magnà ce vo’ li forchette, no li solde“).

Grande personaggio, ma grande davvero, un personaggio del popolo che non ha governato la città né è appartenuto a gruppi politici o sociali rilevanti, ma che (forse proprio per questo) nella sua maniera colorita e folcloristica è stato uno dei più grandi esempi di signore che io conosca: il signore vero, quello dell’animo.

Il cavaliere felice

 
Lionetti 1

Se nella Quintana d’agosto 2015 ci aveva colpito l’applauso tributato da tutto lo Squarcia a Emanuele Capriotti dopo la sua ultima tornata quintanara, quest’anno il momento più emozionante è stato sicuramente l’abbraccio tra il piccolo Nicholas Lionetti della Piazzarola e la madre, qui documentato da una bellissima foto rubata a Luigi Ianni.

Così come Alessandro Florenzi con la nonna, anche Nicholas – ricordiamolo sempre, 17 anni! – zompa la ramata e va a incassare un quintale di bacetti dalla mamma, felice come una pasqua.

Ma direi che Nicholas ha proprio corso da cavaliere felice: l’ultima parte della terza tornata, dopo l’ultimo curvone, era proprio raggiante, aveva le ali ai piedi e un’espressione sul viso da folletto terribile. Anche qui, mi soccorre la bellissima foto dell’amico Davide Valenti, che ben ha saputo cogliere l’attimo.

Lionetti 2

E non è un caso che Nicholas sia stato l’unico cavaliere del 2016 ad alzare la lancia dopo aver finito l’ultima tornata: lui a quel punto la sua personale Quintana l’aveva già vinta correndo alla pari con i grandi, e tutto lo stadio infatti lo ha applaudito con simpatia e ammirazione.

Certo altro si potrebbe dire di una giostra un po’ sottotono e di accadimenti poco edificanti, ma perché? Alla fine ciò che ricorderemo è la scena di tutta la tribuna in piedi ad applaudire l’abbraccio stritolante di una signora bionda a lu frechì suò.

Toteri e torturi


Sono particolarmente belle le definizioni che l’ascolano utilizza per definire le persone dall’appeal non particolarmente sveglio. Persone che in italiano potremmo definire tonte, almeno all’apparenza. Ecco, quando uno ha un po’ l’aspetto, la faccia, l’andatura da tonto l’ascolano si sbizzarrisce in definizioni varie, ognuna delle quali reca in sé peculiarità precise che la fanno preferire, nel caso concreto, ad altre.

Prendiamo la definizione principe che l’ascolano dà di questa figura: lu tòtera. Per chi non lo sapesse, lu totera è la parte interna della panocchia di granturco, ovvero ciò che rimane dopo aver snocciolato i preziosi chicchi gialli. Ebbene, cosa se ne dovrebbe fare uno del totera? Decisamente molto poco, ed è questo il motivo per cui una persona poco sveglia viene definita tale.

Totera è lo stimato professionista – ingegnere avvocato medico – al quale affideresti la tua famiglia con cieca fiducia tanta è l’affidabilità sociale che promana dalla sua figura, ma che magari cammina come un automa (ad esempio portando avanti gamba e braccio insieme dallo stesso lato, avete visto mai?), oppure totalmente incapace di capire una battuta che non abbia concatenamento a=ape, u=uva. Insomma: tutti lo idolatrano, è rispettato e ammirato, ha preso tutti 30 all’università, porta sempre la cravatta, ma tu dentro di te lo sai che è solo ‘nu totera.

E poi, sì, magari ci sono toteri anche meno abbienti o posizionati, ma hanno inferenza statistica minore: il bisogno come si sa accelera le sinapsi e stimola l’immaginazione.

Diverso è il concetto de lu tertùre. Ah, qui no: ragazzi se uno ti dà del torturo la fa grossa. Lu terture, fondamentalmente, è il bastone. Nel contado è specificatamente il bastone ficcato nel suolo vicino alla piantina giovane che viene legata ad esso per poter crescere dritta.

Ora, non che si possa dire che lu terture in tal caso non abbia una sua utilità pratica, ma c’è da ammettere che la sua funzione si esplica nella più assoluta nullafacenza. E poi viene buttato via, oppure utilizzato per l’altra funzione cui è solitamente deputato: le percosse. Infatti in ascolano si dice “Mo’ te denghe ‘na terterata”, cioè una botta di torturo. Ravanando tra i dizionari d’italiano emerge che è ben reso in lingua dal lemma tortóre che definisce il bastone che veniva usato per torcere le funi nella lavorazione della canapa.

Ora, definire una persona tertùre per un ascolano significa fargli torto ben peggiore che dargli del tòtera. Lu terture è il tonto trapassato remoto, quello che abbina postura, espressione facciale, difficoltà di parola, vestiario assolutamente inadeguati ad un sereno confronto sociale. Lu terture non ti capisce pure se usi l’abbacedario, ha uno spessore umano di un micron. Abbina la risicata elasticità mentale ad una scarsa sincronia nei movimenti, di solito esibisce un corpo ingombrante e inadeguato che può essere vestito pure da Valentino o da Armani, ma purtroppo come si dice ad Ascoli “gness’accosta cósa” (nulla gli cade bene addosso).

Il tratto definitivo della disistima che questo personaggio raccoglie sta nell’utilizzo nei suoi confronti della terza persona singolare in luogo della seconda, ancorché in sua presenza: se infatti ci si rivolge al tonto con altre invettive di stesso stampo in seconda persona (“Oh, ma ié proprie ‘nu tòtera!”), invariabilmente nei suoi confronti si passa ad una impersonale terza persona, come a non volergli riconoscere manco la dignità di ascoltatore coinvolto: “Ma tu guarda STU terture!”, abbinando solitamente alla frase una mano di taglio con palmo verso l’alto.

Ecco, se uno mi dà del tòtera me lo prendo, seppure a malincuore. Cerco di non farci caso, somatizzo ma resisto. Ma se uno mi dice tertùre m’arregno fino alla mattina dopo.

Amo il calcio

 

Tardelli

Amo il calcio, l’ho sempre amato fin dai tempi della fanciullezza quando papà mi accompagnava tenendomi per mano al Del Duca a vedere l’Ascoli. Erano i tempi eroici della serie C, divenuta poi B e poi ancora, trionfalmente, A.

Ho visto dal vivo, a 30 metri da me intendo, Gullit Van Basten Maradona Zico Paolino Rossi Bruno Conti e il grande Zoff.

Il momento che mi è rimasto calcisticamente più impresso, a parte le due vittorie mondiali che ricordo e il gol di Giorgi all’Ancona, il 2-0 dell’Ascoli alla Juve campione del mondo, nel 1982, con due gol di Novellino.

Amo il calcio per quello che si fa in campo e non per ciò che si vede in TV, perché a quelli che hanno la fortuna di vedere la serie A dal vivo non la si può andare a raccontare. Vado allo stadio perché non mi piace rivedere la stessa immagine 20 volte per sapere se la gamba del difensore ha toccato il piede dell’attaccante o se quest’ultimo ha bluffato. Mi piace invece incazzarmi in diretta perché la mia squadra ha subito un’ingiustizia, al prezzo magari di dovermi ricredere di fronte alle immagini televisive.

Del calcio odio i maneggioni come Moggi, Preziosi, Galliani, Lotito, odio gli arbitri supini che con metodo scientifico fanno andare una partita a senso unico a favore della grande squadra.

Amo il fatto che ancora ci sono squadre Davide e squadre Golia, che talvolta Davide atterra Golia. Amo la storia del Chievo e del Castel di Sangro, come sono riuscite due squadrette a farsi largo tra i blasonati club della B e della A. Amo gli exploit come quello del Camerun e della Nigeria ai mondiali, quello del Frosinone che fino a ieri giocava in seconda categoria.

Amo le partite giocate nella melma, col campo al limite dell’impraticabilità. Ricordo un vecchio Ascoli-Milan, in mezzo a una bomba di pioggia: partita da sciabola e non per fiorettisti che infatti – regolarmente – alla fine della partita dissero che quelle non erano condizioni “accettabili”. Se sei bravo, mandò a dire il nostro allenatore, sai giocare anche sulla luna. E poi le molecole d’acqua non è che si scansassero per la nostra squadra.

Amo questo del calcio, amo anche commentare all’infinito il tacco dell’attaccante, il gol di Meco Agostini al Pisa in rovesciata, la mano di Dio che aiutò Maradona contro l’Inghilterra prima che egli, per sovrammercato, segnasse la doppietta con il più bel gol della storia del mondo.

Amo l’esultanza di Tardelli dell’82 e quella di Grosso nel 2006. Anzi, amo osservare e studiare l’esultanza di ogni giocatore: Toni con la sua mossa da tecnico audio, del Piero con la linguetta fuori a braccia larghe, Pruzzo che partiva come un siluro verso l’irrinunciabile abbraccio della Curva Sud dell’Olimpico, Falcao con il suo saltello a un metro da terra sul posto.

Amo le immagini eroiche del Grande Torino perito a Superga, una storia che se fosse stata scritta da Omero 3.000 anni fa non avrebbe sfigurato a fianco dell’Iliade.

Amo tremendamente il fatto che leggendo questo mio intervento qualcuno abbia una voglia insopprimibile di dirmi che non ho ragione su questo o su quello. I milanisti ancora incavolati per la partita del 2006, i laziali per i quali Lotito è un uomo corretto, eccetera. Amo il fatto che il calcio faccia parlare nei bar, non mi piace più di tanto parlarne in prima persona, ma mi divertono i commenti che fanno i miei concittadini in dialetto, le definizioni che danno di questo o quel calciatore, le offese che riservano agli arbitri. Semplicemente un pezzo di cultura della mia città.

Amo – nel contempo ridendone – le critiche che al calcio fanno le donne, così facilmente smontabili. I 22 cretini in mutande, un classico. Ma tanto io un giorno di questi quando stai attaccato alla televisione me ne esco e ti vado a confezionare un ottimo paio di corna, e altre amenità simili. Bellissima la frase detta da una mia ex a suo tempo: tu odoreresti pure una scoreggia di Baggio.

Beh, di Dino Baggio magari no. Ma di Roberto…

La freciuta

Freciuta
Tempo fa mi sono trovato a dover spiegare a un non ascolano che cosa significhi freciuta. Meno facile di quanto si possa pensare.

Il termine freciuta deriva dalla tendenza di alcune persone a esprimersi provocatoriamente oppure rispondere piccate (entrambi tipici atteggiamenti freciuti), allargando leggermente le narici (dette in dialetto froce, in italiano froge), un po’ come quando uno è arrabbiato, avete presente? Anche nei fumetti ingrossano le froge dei personaggi quando questi devono apparire infuriati. Così, una freciuta sta spesso inquieta o risponde maleducatamente o, anche, provoca deliberatamente.

Tipica freciuta è la nuora che risponde piccata, anche villanamente a volte, alla suocera; la scolaretta che – vistasi colta in castagna dalla professoressa – risponde a tono seppur non abbia un briciolo di ragione; la fidanzata che – a fronte di rifiuti di regalìe o altro – minaccia ritorsioni sessuali sull’amichetto.

Freciuta era mia figlia Sara quando a tre anni rispondeva “No no e no” alle mie sommesse richieste di bacetti. E cosa volete che sia questa se non villanìa bella e buona?

La freciuta solitamente si presenta con le mani sui fianchi e spesso, dopo aver somministrato le sue provocazioni, si allontana che lu cule pen’ensù (col sedere dritto): possiamo quindi ritenere complementari l’ingigantimento degli orifizi rinitici e la modificata postura lombosacrale. E con questo l’iconografia della freciuta è servita.

L’analisi del profilo psicologico ci restituisce la freciuta non solo come una “bambina impertinente” (nel qual caso si utilizza meglio il termine frecetélla), ma anche come una donna fatta che, a ragione del suo caratteraccio, si presenta in società come donna intrattabile e risponditrice.

Adesso chiudete gli occhi e contate: quante freciute vi sono venute in mente scorrendo queste poche righe?

La città di Cecco

fontana

Questa foto, nella quale due personaggi ameni si bagnano alle 4:15 di notte nelle fresche acque di una fontana al centro di un incrocio importante della città, documenta l’inestinguibile passione del popolo ascolano per i colori bianconeri.

Per chi non lo sapesse (ma deve venire da Marte), l’Ascoli è in serie B per effetto di una sentenza che ha visto condannare un’altra squadra per illecito sportivo.

E aggiungiamo: c’è chi ha già schedulato la pedalata verso Loreto, chi è partito di presta mattina per la cima del Vettore, chi ha già portato i suoi ringraziamenti a Middie nuostre iò la cripta.

Il due aste lasciato a bordo vasca dice: “Noi Bellini… voi mica tanto“.

Sempre a beneficio degli extraterrestri, riferisco che Bellini è il nome del presidente del redivivo Ascoli.

Al di là del fatto che uno dei personaggi in questione – quello che in foto se la ride beffardo – è nato a casa mia, sono veramente contento di essere nato tra il Tronto e il Castellano.

Ascoli si conferma città della satira come poche altre, d’altronde non discendiamo da Cecco a caso.

La trombetta dei Giaquinto


Immagine

Una foto recentemente pubblicata su Facebook mi ha richiamato, prepotente, un ricordo piacevole. Si tratta del signore nella foto, immancabile per anni a Piazza Arringo nella mattinata della festa di Sant’Emidio con la sua trombetta “Peppe pee… peppe pe…”, chi non la ricorda?

Dovendo, nel 1998, fare con i Nerkias un pezzo sull’ascolanità (pezzo che poi sarebbe diventato “Ascoli regina”), andai con la mia fidanzata di allora (divenuta moglie di adesso) in piazza Arringo il giorno del Patrono per trovare il trombettaio. Ed effettivamente lo trovammo (una delle ultime volte che veniva, ora non viene più), ma era il figlio di quello che avevo conosciuto da bambino, tale Antonio Giaquinto. Non sono sicuro che il personaggio corrispondesse a quello della foto, ad Ascoli ne venivano un paio e potrebbe essere l’altro.

Questo signor Antonio ci disse che il padre era deceduto e che lui continuava la tradizione di famiglia girando feste su feste per mezza Italia meridionale, ma che purtroppo l’attività non rendeva più come una volta anche a causa dell’ingresso dei cinesi (sic!) che avevano cominciato a produrre i fischietti col pulcinella.

Quando, dopo una chiacchierata di almeno 10 minuti, tirai fuori il DAT portatile e gli chiesi se gentilmente potevo registrarlo mentre suonava la trombetta, lui dapprima mi guardò con leggero sospetto, poi disse tomo tomo: “Sì, se mi dite a cosa vi serve”. Mi dette del voi, come tutti i napoletani.

Gli racconto tutto, che eravamo un gruppo dialettale satirico che stava realizzando una ironica canzone d’amore per la nostra città, che ci serviva la sua trombetta da mettere sul sottofondo del campanone che suonava e del vociare delle persone del giorno della festa, insomma gliela condisco in maniera da invogliarlo a dire di sì.

E infatti lui disse: “Sarei onorato di far parte del vostro disco” e accettò. Direte: ma tanto l’avresti potuto registrare anche se lui non avesse voluto, era sul suolo pubblico e sicuramente avrebbe dovuto suonare la sua trombetta per venderne qualcuna. Ma volete mettere? Mi fece un’esecuzione, poi un’altra, poi una terza più forte, e dimostrò pure un minimo di competenza di fonìa perché alla fine disse: “Scegliete voi la versione che meglio si adatta al vostro sottofondo”.

Prima che io me ne andassi – assolutamente soddisfatto – dalla piazza, a distanza mi richiamò e mi disse: “Ma non è che per caso uno di questi CD si può avere?”. Promisi, mi segnai l’indirizzo di Napoli e lo salutai calorosamente dandogli la mano. Ebbi l’impressione che fosse felice, ma forse un po’ scettico circa la mia promessa.

Quando, nel dicembre 1999, uscì il nostro secondo CD “Celo grande”, una delle pochissime copie date in omaggio (ai musicisti, al produttore e a noi Nerkias) fu proprio quella che spedimmo al signor Antonio Giaquinto a Napoli, che peraltro è espressamente citato sulla copertina del CD.

La sua trombetta campeggia nell’intro di “Ascoli regina”, tra le campane e il vocìo degli ascolani del giorno della festa, e più d’una persona mi ha detto che quell’intro, ascoltata fuori da Ascoli (ad esempio in un paese straniero) inorgoglisce, strugge e mette allegria nello stesso momento. Esattamente l’impressione che fa a me, anche a distanza di anni.

La canzone sta qui:   ASCOLI REGINA 

Di Antonio da quel giorno della registrazione non ho avuto più notizia. Mi piace immaginarlo in giro per feste, nei paesini di pietra e mattoni dell’Italia meridionale con il suo carico di 200 pulcinella, a tirare fuori  da par suo una melodia che nessuno, a parte quelli della famiglia napoletana che li vendeva, è mai riuscito a replicare decentemente.