Il cavaliere felice

 
Lionetti 1

Se nella Quintana d’agosto 2015 ci aveva colpito l’applauso tributato da tutto lo Squarcia a Emanuele Capriotti dopo la sua ultima tornata quintanara, quest’anno il momento più emozionante è stato sicuramente l’abbraccio tra il piccolo Nicholas Lionetti della Piazzarola e la madre, qui documentato da una bellissima foto rubata a Luigi Ianni.

Così come Alessandro Florenzi con la nonna, anche Nicholas – ricordiamolo sempre, 17 anni! – zompa la ramata e va a incassare un quintale di bacetti dalla mamma, felice come una pasqua.

Ma direi che Nicholas ha proprio corso da cavaliere felice: l’ultima parte della terza tornata, dopo l’ultimo curvone, era proprio raggiante, aveva le ali ai piedi e un’espressione sul viso da folletto terribile. Anche qui, mi soccorre la bellissima foto dell’amico Davide Valenti, che ben ha saputo cogliere l’attimo.

Lionetti 2

E non è un caso che Nicholas sia stato l’unico cavaliere del 2016 ad alzare la lancia dopo aver finito l’ultima tornata: lui a quel punto la sua personale Quintana l’aveva già vinta correndo alla pari con i grandi, e tutto lo stadio infatti lo ha applaudito con simpatia e ammirazione.

Certo altro si potrebbe dire di una giostra un po’ sottotono e di accadimenti poco edificanti, ma perché? Alla fine ciò che ricorderemo è la scena di tutta la tribuna in piedi ad applaudire l’abbraccio stritolante di una signora bionda a lu frechì suò.

Pelè, 1958

PELE

Ero piccolino quando papà mi snocciolava la formazione del Brasile del 1958: Gilmar, Djalma Santos, Nilton SantosZito, Bellini, OrlandoGarrincha, Didi, Vavà, Pelè, Zagallo. Me la sono imparata perfino io nel corso degli anni, unica formazione che ricordo a memoria senza esitazioni insieme a quella dell’Ascoli che passò per la prima volta dalla serie C alla B (Masoni Vezzoso Schicchi, Pagani Castoldi Minigutti, Colombini Vivani Bertarelli Gola Campanini).
Solo che io nel 1958 non ero nemmeno un progetto nella testa dei miei genitori, che ancora non si conoscevano.
E’ per questo che sono andato a vedere il film “Pelè“, ieri, con mio figlio. Lo dovevo ad anni e anni di racconti di mio padre: le gambe storte di Djalma Santos, le ubriacanti discese a zig-zag di Garrincha, la potenza di Vavà, la velocità di Zagallo e naturalmente, sopra a tutti, l’infinita classe del diciassettenne Pelè, un fagiolino di 1,70 metri che all’Italia, nel 1970, in finale fece un gol di testa alzandosi un metro da terra che ancora Burnich se lo ricorda.
Il film è straordinario, bellissimo. Non può non piacere a chi ami il calcio, ma anche a chi non piacesse questo sport lascerebbe comunque una scia di emozione, essendo storia di sofferenza, di amore, di impegno, di riscatto.
E quando, nelle scritte finali, si ripercorre la carriera di Pelè successiva a quella magica estate del 1958, il momento più bello è quando appare l’unica cosa che Pelè non è riuscito a fare, cinque gol nello stesso match. Cosa riuscita in carriera a suo padre, giocatore come lui.
Un film che mi ha emozionato come pochi. Lo danno ancora al Città delle Stelle, io l’ho visto al Piceno e nella sala c’eravamo solo io e mio figlio di 12 anni, che alla fine della proiezione non ha potuto trattenere un’esclamazione: “Che filmone!”