L’inimitabile

Se ne va con un coup de théâtre nel giorno dei suoi 80 anni

Quando, nel valutare i tanti pezzi comici a disposizione, mi apprestavo a mettere su il mio spettacolo “Revolution Comic Songs” con la Peto’ Band, che sarebbe piaciuto così tanto al pubblico, ho considerato anche l’ipotesi di buttar dentro qualcosa di Gigi Proietti. Il più grande. Era una sfida con me stesso, ne ho fatte tante, perché non quella.

Mi sono studiato per tre giorni la sua inimitabile “Nun me rompe er cà“, uno dei pezzi che preferisco e che è compatibile con il mio repertorio. L’ho imparato a memoria, interiorizzato, provato. Andava.

Poi un giorno ho fatto, per scrupolo, la prova dello specchio, quella che mi fa decidere per il sì o il no per qualsiasi cosa che voglio fare nel ramo artistico, sì quella tanto sconsigliata dai professionisti, quella. Il paragone era improponibile, mi mancavano un paio di requisiti fondamentali: la faccia, la voce. Forse la credibilità.

E in un repertorio coagulato intorno alle canzoni satiriche dei più grandi (Zalone, Benni, Nosei, Marcoré, Carena, Oblivion, Nuti e, indegnamente, anche qualcosa di mio) non sono riuscito a infilare qualcosa del più grande di tutti. Cioè del mattatore che, visto al Teatro Olimpico negli anni 90, mi aveva tenuto incollato lo sguardo su di lui per tre ore di spettacolo senza una pausa, aiutato solo da un baule con qualche oggetto dentro e dal suo proverbiale tocco di matita sotto agli occhi per dare profondità allo sguardo.

E’ una sfida più di persa: è una sfida mai cominciata. Perché come non provo a rifare il sugo finto di mia madre, non provo a rifare i pezzi di Gigi Proietti. Non si può imitare l’inimitabile.

Il grande Fonzi’

Un post scritto su un gruppo Facebook da un ascolano che risiede all’estero mi ha riportato alla mente uno dei personaggi ascolani che io abbia stimato di più. Mi piace ricordarlo qui, in pubblico, ed è l’amico Fonzì. Sì, amico nonostante appartenessimo a generazioni diverse. Era amico di mio padre, così come di tanti altri padri dei ragazzi con cui andavo nel suo locale (tipica la frase che rivolgeva sempre al mio amico Pietro quando quest’ultimo faceva il matto: “Attente Girardi che i’ cunosche pàrtete!“).

Famosissimo perché da lui si mangiava con 12.000 lire. Finì pure sul giornale come locanda a più buon mercato del centro Italia. E poi non è che ti dava due boccolotti, con 12.000 lire ti dava i tortellini, la cotoletta, le patatine e ti passava pure da bere. Un mito assoluto della nostra gioventù, sempre allegro, sempre disponibile, un ascolano verace che parlava in dialetto e ci faceva pisciare sotto per le risate.

Con i Nerkias (al tempo eravamo compagni di scuola) siamo andati decine di volte a mangiare da lui, e sulle tovaglie di carta scrivevamo i testi delle canzoni che ci uscivano a cena, molte delle quali poi sono finite nei nostri album. E se alla fine della cena ciavevi 10.000 lire, faceva una faccia noncurante e ti faceva lo sconto (“Vabbè pure 10.000 dài, nn’ié magnate cósa…“, fingeva), pure se papà lavorava all’Enel e, cazzarola, 2.000 lire in più me li petié pure dà (ma io magari ci avevo comprato un disco). Credo di dovergli ancora una cifra non inferiore alle 50.000 lire.

Poco accondiscendente nei confronti di chi gli parlava entusiasticamente dell’affascinante figliola Cinzia (gli cambiava lo sguardo), era invece fraterno con chiunque entrasse nel suo locale, dove non esisteva il LEI ed eri sempre accolto con un sorriso: “Ciao Piccioni, come sta pàrtete?“). E a chiunque sia entrato direttamente in cucina, con lo sguardo basso, nel corso degli anni non è mai stato negato un pasto auffa (tipica la frase di Fonzì: “Pe’ magnà ce vo’ li forchette, no li solde“).

Grande personaggio, ma grande davvero, un personaggio del popolo che non ha governato la città né è appartenuto a gruppi politici o sociali rilevanti, ma che (forse proprio per questo) nella sua maniera colorita e folcloristica è stato uno dei più grandi esempi di signore che io conosca: il signore vero, quello dell’animo.

Il lamento del fabbro nudo

50lire

Chi non ricorda le vecchie 50 lire? Ci usciva, nei nostri anni ’70, un ghiacciolo semplice, mai un Arcobaleno né, ancor peggio, quelli “buoni”, ovvero ricoperti di cioccolato, oppure i Cuccioloni col biscotto. Quelli costavano 100, perfino 200 lire.

Ti ritrovavi queste 50 lire per effetto di un favoretto che avevi fatto a tuo padre (aiutarlo a infiascare il vino, a lavare la macchina, a annaffiare l’orto) e correvi felice verso il baretto per gustarti il gelatino all’arancio nella canicola estiva.

Capitava, a volte, di incantarsi ad osservare la figura che era ritrattata nel retro della moneta: un misto di forza ed eleganza rappresentata da un giovane fabbro, nudo, che batteva sull’incudine con una mazza. Spesso – chi non lo ha fatto? – ti veniva da pensare che, nelle sue condizioni, era n’attimo andare a finire sul piano dell’incudine con gli accessori pendenti, e allora sai che gniaulìi!

L’atteggiamento di certe persone che nella vita preferiscono guardare, in un bicchiere pieno all’80%, il 20% vuoto mi fa pensare a quel giovane fabbro che decide motu proprio di mancare il bersaglio e squagliarsi una palla sull’incudine. E’ successo ad Ascoli, recentemente, anzi direi che nel calcio – e quindi anche ad Ascoli – succede spesso. Spiegazione dell’antefatto, per i non ascolani o i non appassionati di calcio: i bianconeri in evidente crisi di risultati riportano 3 punti di platino da Padova, battendo l’affermato Cittadella in corsa per il primato della B. E che ti fanno i lagnosi piceni: cominciano il lamento del fabbro nudo.

E che culo, e hanno ammonito solo loro, e l’arbitro facié a parte che nu’, e s’è nventate l’espulsione, e Perez nen è de categoria, e Giorgi è rutte, e Aglietti nen è tutte quelle che se decié, e Bellini caccia ssi solde, e se a gennaio nen chempreme na limana ce n’arieme dritte in Lega Pro, e la tribuna chisà quant’è pronta, e era megghie che invece del centro sportivo ce chemprava Marilungo, e senza ferrovia Ascoli-Roma è nu brutte campà, e in America tante è Trump e tante è la Clinton, e che c’è mannate affà la sonda Schiaparelli su Marte.

A questo punto la palla è spappolata, le ciuette-inside felici e il mondo adeguatamente grigio. E questo – beninteso – succede spessissimo dalle nostre parti.

Da quanto sopra un semplice assunto. Fate vobis per l’atteggiamento da adottare con i fabbri svestiti, ma io adotto il mio: indifferenza totale e senza quartiere. Non permetto agli altri di sporcare il mio cielo. Verrà il tempo per reincazzarsi per un risultato bugiardo, una prestazione meno che dignitosa, una caterva di gol mancati. Nel frattempo, però, preferisco vivere. Vivere sereno mentre il fabbro gestisce torvo il suo dolore, consolato solo dallo spargere malessere, dal provocare flames, dal rovinare l’attimo, dal gestire l’umore altrui.

Il cavaliere felice

 
Lionetti 1

Se nella Quintana d’agosto 2015 ci aveva colpito l’applauso tributato da tutto lo Squarcia a Emanuele Capriotti dopo la sua ultima tornata quintanara, quest’anno il momento più emozionante è stato sicuramente l’abbraccio tra il piccolo Nicholas Lionetti della Piazzarola e la madre, qui documentato da una bellissima foto rubata a Luigi Ianni.

Così come Alessandro Florenzi con la nonna, anche Nicholas – ricordiamolo sempre, 17 anni! – zompa la ramata e va a incassare un quintale di bacetti dalla mamma, felice come una pasqua.

Ma direi che Nicholas ha proprio corso da cavaliere felice: l’ultima parte della terza tornata, dopo l’ultimo curvone, era proprio raggiante, aveva le ali ai piedi e un’espressione sul viso da folletto terribile. Anche qui, mi soccorre la bellissima foto dell’amico Davide Valenti, che ben ha saputo cogliere l’attimo.

Lionetti 2

E non è un caso che Nicholas sia stato l’unico cavaliere del 2016 ad alzare la lancia dopo aver finito l’ultima tornata: lui a quel punto la sua personale Quintana l’aveva già vinta correndo alla pari con i grandi, e tutto lo stadio infatti lo ha applaudito con simpatia e ammirazione.

Certo altro si potrebbe dire di una giostra un po’ sottotono e di accadimenti poco edificanti, ma perché? Alla fine ciò che ricorderemo è la scena di tutta la tribuna in piedi ad applaudire l’abbraccio stritolante di una signora bionda a lu frechì suò.

Toteri e torturi


Sono particolarmente belle le definizioni che l’ascolano utilizza per definire le persone dall’appeal non particolarmente sveglio. Persone che in italiano potremmo definire tonte, almeno all’apparenza. Ecco, quando uno ha un po’ l’aspetto, la faccia, l’andatura da tonto l’ascolano si sbizzarrisce in definizioni varie, ognuna delle quali reca in sé peculiarità precise che la fanno preferire, nel caso concreto, ad altre.

Prendiamo la definizione principe che l’ascolano dà di questa figura: lu tòtera. Per chi non lo sapesse, lu totera è la parte interna della panocchia di granturco, ovvero ciò che rimane dopo aver snocciolato i preziosi chicchi gialli. Ebbene, cosa se ne dovrebbe fare uno del totera? Decisamente molto poco, ed è questo il motivo per cui una persona poco sveglia viene definita tale.

Totera è lo stimato professionista – ingegnere avvocato medico – al quale affideresti la tua famiglia con cieca fiducia tanta è l’affidabilità sociale che promana dalla sua figura, ma che magari cammina come un automa (ad esempio portando avanti gamba e braccio insieme dallo stesso lato, avete visto mai?), oppure totalmente incapace di capire una battuta che non abbia concatenamento a=ape, u=uva. Insomma: tutti lo idolatrano, è rispettato e ammirato, ha preso tutti 30 all’università, porta sempre la cravatta, ma tu dentro di te lo sai che è solo ‘nu totera.

E poi, sì, magari ci sono toteri anche meno abbienti o posizionati, ma hanno inferenza statistica minore: il bisogno come si sa accelera le sinapsi e stimola l’immaginazione.

Diverso è il concetto de lu tertùre. Ah, qui no: ragazzi se uno ti dà del torturo la fa grossa. Lu terture, fondamentalmente, è il bastone. Nel contado è specificatamente il bastone ficcato nel suolo vicino alla piantina giovane che viene legata ad esso per poter crescere dritta.

Ora, non che si possa dire che lu terture in tal caso non abbia una sua utilità pratica, ma c’è da ammettere che la sua funzione si esplica nella più assoluta nullafacenza. E poi viene buttato via, oppure utilizzato per l’altra funzione cui è solitamente deputato: le percosse. Infatti in ascolano si dice “Mo’ te denghe ‘na terterata”, cioè una botta di torturo. Ravanando tra i dizionari d’italiano emerge che è ben reso in lingua dal lemma tortóre che definisce il bastone che veniva usato per torcere le funi nella lavorazione della canapa.

Ora, definire una persona tertùre per un ascolano significa fargli torto ben peggiore che dargli del tòtera. Lu terture è il tonto trapassato remoto, quello che abbina postura, espressione facciale, difficoltà di parola, vestiario assolutamente inadeguati ad un sereno confronto sociale. Lu terture non ti capisce pure se usi l’abbacedario, ha uno spessore umano di un micron. Abbina la risicata elasticità mentale ad una scarsa sincronia nei movimenti, di solito esibisce un corpo ingombrante e inadeguato che può essere vestito pure da Valentino o da Armani, ma purtroppo come si dice ad Ascoli “gness’accosta cósa” (nulla gli cade bene addosso).

Il tratto definitivo della disistima che questo personaggio raccoglie sta nell’utilizzo nei suoi confronti della terza persona singolare in luogo della seconda, ancorché in sua presenza: se infatti ci si rivolge al tonto con altre invettive di stesso stampo in seconda persona (“Oh, ma ié proprie ‘nu tòtera!”), invariabilmente nei suoi confronti si passa ad una impersonale terza persona, come a non volergli riconoscere manco la dignità di ascoltatore coinvolto: “Ma tu guarda STU terture!”, abbinando solitamente alla frase una mano di taglio con palmo verso l’alto.

Ecco, se uno mi dà del tòtera me lo prendo, seppure a malincuore. Cerco di non farci caso, somatizzo ma resisto. Ma se uno mi dice tertùre m’arregno fino alla mattina dopo.

Il sit-in di Carletto


Carlo

Carlo Palatroni era stato un grande batterista negli anni ’70, uno di quelli che avevano il ritmo nel sangue e gestivano – ai tempi usava – batterie da 15 fusti in su, con piatti e campanacci a profusione. Fu anche compositore e cantante più che discreto, con una voce roca e profonda che non ti aspettavi da un involucro così ridotto. Due baffoni da messicano e un carattere guasconesco mai venuto meno completavano un quadro a suo modo interessante.

Una volta, in mezzo agli anni ’90, mi chiamano via radio da Corso Vittorio Emanuele: “Tenente, dovrebbe venire subito che qui…” “Che lì?…” faccio io. “Eh niente, deve venire”. Salto in auto e arrivo sul posto. Fila immane di auto che arrivavano a Porta Maggiore. In mezzo al viale, sdraiato in terra perpendicolarmente al senso di marcia, c’era Carletto. Faceva una croce con la linea di mezzeria, impossibile passare per un mezzo a quattro ruote.

Lì per lì tento di reprimere un moto di riso, ma era impossibile vista la scena: Carletto con loden e pantaloni a zampa d’elefante disteso con aria drammatica, tutt’intorno una folla di astanti che non sapeva come risolvere la cosa e tentava – inascoltata – di convincere con le buone il baffuto.

Gli vado sopra e lui come vede la divisa parte con la rivendicazione: “Questo è un sit-in di protesta perché qua tutti se ne fregano di me, e io non posso andare avanti”.

Mi accuccio al suo fianco e gli dico piano in maniera che mi senta solo lui: “Eddài Carlo, un artista come te. Manco a farti vedere così!”.

Non gli dissi altro, ma non potei non notare che la parola “artista” aveva sortito un effetto taumaturgico: meditò qualche altro secondo poi si alzò prendendomi sottobraccio.

Arrivati al marciapiede i colleghi stavano già ripristinando la situazione del traffico, mentre io cercavo di sottrarre Carlo dalla curiosità popolare. Ristabilita la normalità stavo rimontando in macchina quando lui da una decina di metri mi fa: “Ehi amico, puoi venire un attimo?”. Gli occhi erano tutti su di me. Mi avvicino, lo porto in disparte per non alimentare la curiosità delle persone rimaste lì.

Mi guarda un attimo, sorridendo, e mi fa: “Non è che ciai diecimila lire?”.

Le ho sempre considerate – e oggi più che mai – le diecimila lire più ben spese degli anni ’90.

La città di Cecco

fontana

Questa foto, nella quale due personaggi ameni si bagnano alle 4:15 di notte nelle fresche acque di una fontana al centro di un incrocio importante della città, documenta l’inestinguibile passione del popolo ascolano per i colori bianconeri.

Per chi non lo sapesse (ma deve venire da Marte), l’Ascoli è in serie B per effetto di una sentenza che ha visto condannare un’altra squadra per illecito sportivo.

E aggiungiamo: c’è chi ha già schedulato la pedalata verso Loreto, chi è partito di presta mattina per la cima del Vettore, chi ha già portato i suoi ringraziamenti a Middie nuostre iò la cripta.

Il due aste lasciato a bordo vasca dice: “Noi Bellini… voi mica tanto“.

Sempre a beneficio degli extraterrestri, riferisco che Bellini è il nome del presidente del redivivo Ascoli.

Al di là del fatto che uno dei personaggi in questione – quello che in foto se la ride beffardo – è nato a casa mia, sono veramente contento di essere nato tra il Tronto e il Castellano.

Ascoli si conferma città della satira come poche altre, d’altronde non discendiamo da Cecco a caso.

Favoloso

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Ascoltato stasera, al buio come consigliato dall’autore stesso. Sul monitor del PC gli istogrammi del Media Player su sfondo nero. Io, di qua, da solo con la cuffia buona; Eldomino che se la canta da là dentro a 16 bit.

Tre soli pezzi, una specie di pit stop in attesa di un nuovo album. L’esigenza dichiarata impellente di rielaborare una serie di input dopo la visione del film “Il giovane favoloso”.

Il risultato delle elucubrazioni dell’artista sembrerebbe poco leopardiano al primo ascolto, ma se Leopardi non è (solo) ciò che abbiamo studiato a scuola ma è l’appassionato giovane reso dal film, allora la freccia di Eldì gli ha centrato la mela sulla testa.

Ho trovato Favoloso EP intenso, emozionante, maturo. Non banale, creativo, a suo modo colto. Non ho bisogno di risentirlo – cosa che farò a breve – per dire che questo è l’ennesimo buon colpo piazzato da ElDomino​.

La mia proverbiale ansia da classifiche (sono nato pur sempre negli anni ’60) mi fa porre “Diabolico” sul terzo gradino, “Risveglio” nella piazza d’onore e la fantastica, evolvente, magistrale “Autunno” in cima alla scaletta. Chiaramente fra un mese la penserò diversamente, e lì sta il bello.

La sordità del fonico – come rappa Eldomino – mi impone di evidenziare un mix non impeccabile proprio nel bellissimo pezzo di apertura dell’EP, e per sordità intendo l’empietà che hanno i tecnici di voler per forza analizzare aspetti extrartistici così poco importanti per il pubblico ascoltante.

Flavio evolve ulteriormente rispetto a “RèportAge”, che ben ci aveva impressionato poco più di un anno fa (qui la recensione), e lo fa nutrendo non solo l’immaginazione, la mente, il subconscio personale di chi ascolta, ma soprattutto il cuore.

Ascoltare “Risveglio”, la track che chiude il miniCD, per credere.

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Il mio amico toscano

Io e Roberto Strulli

Oggi, 50 anni fa, a San Valentino moriva il giovane portiere dell’Ascoli Roberto Strulli. Un fortuito incidente di gioco la causa della morte, in un Sambenedettese-Ascoli drammatico che da allora ha costituito una sorta di spartiacque nella storia tra le due tifoserie e tra le stesse città.

Ho un rapporto particolare con questa tragedia, che pur essendo avvenuta in un giorno che non potrei mai ricordare (avevo appena un anno) sento mia per un motivo preciso.

La mia mamma lavorava al posto pubblico della SIP (era la Telecom degli anni ’60), che era una sorta di salone con delle cabine telefoniche ove chi non aveva il telefono poteva andare a chiamare i suoi cari. Era un posto ove si incontravano prevalentemente i militari, e specificatamente gli allievi ufficiali della caserma Clementi, i viaggiatori, i rappresentanti e, appunto, i giocatori dell’Ascoli che chiamavano le famiglie lontane. Mia madre al tempo ne conobbe diversi, tra i quali anche Roberto Strulli, il portiere. Me lo ha sempre descritto come un ragazzo molto simpatico, educato e gentile.

Qualche volta succedeva che io fossi presente lì al posto pubblico, magari perché mia madre passava a trovare le colleghe con me, e ogni volta Roberto si avvicinava alla carrozzina per guardarmi e dopo aver fatto i complimenti a mia madre, felice come una pasqua diceva: “Che bel bambino, lo sa che anche mia moglie mi sta per dare un figlio? Chissà se sarà un maschietto come questo”.

Anche se fortuitamente ci incontrava per strada Strulli si fermava sempre a guardarmi, vedendo forse in me il figlio che desiderava moltissimo e che avrebbe completato la sua felicità di atleta in carriera e di marito felice.

Il sogno si interruppe poco dopo, appena entrati nel 1965. Mia madre seppe, come tutti, della tragedia, e nel corso degli anni mi ha sempre trasmesso sottotraccia il suo cruccio particolare, personalissimo, condiviso con me. E io ho sempre sentito nel corso degli anni la presenza di questo atleta che non ho mai ricordato, come immanente nella mia vita, una specie di angelo custode. Sembrerà assurdo, ma è come se io avessi saputo in un angolino del mio cervello di avere sempre quello sguardo su di me, nonostante dentro casa, principalmente per pudore ma anche forse un po’ per una sorta di dolore sordo, non si sia mai troppo parlato della cosa.

La memoria di Roberto Strulli è stata recentemente rispolverata dalla città di Ascoli Piceno e da una tifoseria che, pur essendo troppo giovane per ricordarlo, ne ha conosciuto la storia e la fine che ha qualcosa di eroico e di struggente insieme. Oggigiorno si esaltano sportivi per molto meno, ma io nel mio pantheon bianconero, insieme a Renato Walter Junior e gli altri, ho da sempre anche Roberto, una specie di zio lontano, un amico dolce e sfortunato.

Alla signora Luana e a Roberto Jr., che non ebbe modo di rallegrare con il suo arrivo la vita di suo padre, invio oggi, a 50 anni da quel grande dolore, il mio pensiero e tutto l’affetto del bambino che dalla carrozzina vide più volte chinarsi su di lui un bel ragazzo toscano dallo sguardo allegro.

Il cartello di Capo’

Orto di Capo'

Storia vera appresa solo qualche giorno fa. La riporto in memoria del suo protagonista, Vincenzo Caponi, venuto a mancare da qualche settimana. La foto ritrae il vero teatro degli eventi riferiti.

Ascoli, anni ’90: l’anziano Capo’, tipo burbero ma nello stesso tempo gran simpaticone, coltivava un piccolo frustolo di terreno appartato in zona San Marco. Quest’orto era il suo vanto, il suo passatempo adorato ma anche il suo cruccio: da qualche tempo infatti nelle immediate vicinanze si erano cominciate a fermare delle coppiette in auto a scambiarsi effusioni.

Si sa, l’acqua corre e lu sangue stregne, e c’era perfino qualche intrepido giovanotto che – Posillipo style – foderava con carta di giornale i vetri dell’auto per avere maggiore privacy.

Capo’ le provò tutte per scoraggiare questi comportamenti: cominciò a farsi vedere nelle vicinanze quando arrivavano, si faceva prendere da improbabili roboanti accessi di tosse, ogni tanto sparava qualche raudo facendo finta di cacciare i cani randagi, metteva pietroni belli grossi all’ingresso del frustolo di terreno. Per qualche tempo riusciva ad ottenere una relativa pace, ma dopo un po’ tutto tornava come prima con estremo detrimento del povero Capo’.

Un giorno, evidentemente ispirato da qualche notiziario, ebbe un improvviso lampo di genio ed attaccò un filo con appeso un cartello che recitava:

PROPRIETA’ PACCIANI“.

Da quel giorno non si vide più nessuno.