
Quando avevo 18 anni i ragazzi a cui piaceva suonare avevano un solo sogno: avere un complesso. Ma non era facile: per suonare in un complesso ti dovevi caricare di debiti per comprare una vocale (come si chiamavano allora gli impianti di amplificazione) e soprattutto accettare, per poterla pagare, di suonare musica da feste di paese, e quindi il detestato liscio, la musica sudamericana, gli ultimi successi della radio.
Per i rockettari come me il bicchiere era amaro come la cicuta, perlomeno all’inizio. Poi pian piano ti rendevi conto che l’aspetto più bello dell’andare a suonare non era il suonare in sé, ma l’amicizia e l’umanità che ti scambiavi con i compagni di viaggio, con i comitati di festeggiamenti dei paesi che ti accoglievano sempre con rispetto e qualche volta con ammirazione. Suonare per noi era una sorta di riconoscimento, il premio per essersi impegnati a fare prove, per aver discusso con la famiglia che qualche volta non voleva (a me non è successo perché in casa si è sempre respirata musica), per aver faticato a montare gli strumenti, tutti da soli perché non era ancora tempo dei service e ogni complesso aveva il proprio impianto.
Mitiche le risate dovute ai numerosi episodi successi tra le nostre campagne, in paesi sperduti dove ne succedevano di tutti i colori e dove ogni volta tornavi a casa con episodi ridanciani da raccontare. Certi fatti e certi personaggi (penso ad esempio al compianto Pino Barba) sono addirittura entrati nella storia, così come certi palchi ove ti toccava suonare.
Quando ho cominciato io erano i tempi dei Well’s Fargo, dei Pentagono, dei Block Notes, ce n’erano tanti di complessi ad Ascoli. Era una bella esperienza perché erano complessi – come dire – generalistici, ovvero di musica leggera varia, non tribute band monotematiche che erano ancora di là da venire. E quindi ogni complesso aveva il proprio repertorio caratterizzante cesellato ad arte nel corso di estenuanti prove, ricordo la disco dei Well’s Fargo, gli incastri vocali dei Pentagono, le canzoni sempre ricercate del Miscuglio Magico, i pezzi talvolta assurdi ma bellissimi della Riunione Improvvisata.
Ma quel che ricordo meglio, sembra assurdo ma è proprio così, è l’odore della stalla ove facevo le prove con il mio primo complesso, i Manhattan. Tutti i complessi più o meno facevano le prove in una simil-stalla o fondacone, non c’erano le sale prova che ci sono ora, e allora ti dovevi adattare all’odore di letame che spesso caratterizzava le prove. Che è già bello di suo – chi ama la campagna ama quell’odore strano ma rassicurante – ma lì diventava quasi un rosolio.
Era bellissimo andare alle prove un po’ prima e suonare lo strumento di un altro – mi capitava spesso con il basso, ma anche con la chitarra elettrica o la batteria – e fare esperimenti che per me, a 18 anni, erano totalmente nuovi.
Ho suonato con veri amici, molti dei quali frequento ancora oggi. Con alcuni di essi ho coltivato un progetto parallelo, meno “suonato sul campo” ma non per questo meno formativo, il gruppo di musica inedita dei Nerkias.
Quelli della mia generazione hanno avuto tanta fortuna dalla musica, forse anche superiore ai reali meriti, ma rivendico a loro nome un impegno che è andato al di là del semplice studiarsi le canzoni e cercare di migliorare come strumentisti o come cantanti. Quasi tutti gli strumentisti degli anni 70/80 hanno sempre voluto sapere come funzionavano le cose, come si montavano gli strumenti, che viaggio faceva il suono dallo strumento alle casse che irradiavano la musica sul pubblico. Anche perché molto spesso si era fonici di sé stessi, e non potevi fare altrimenti.
Non intendo scivolare sulla buccia di banana dell’esaltazione di ciò che è stato a sfavore di ciò che è, anche perché non lo penso affatto. Anzi, vedo tanta, tanta capacità in più di suonare nei ragazzini di oggi, anche per la fortunata abbondanza di offerta delle scuole di musica. Certo a prima vista sembrerebbe cogliere un pelo di passione in meno, ma ciò non dipende dal fatto che c’è meno passione. Molti suonano o cantano perché in un certo qual modo “devono”, sono stati instradati, oppure gli somministrano la musica a scuola con quei bellissimi percorsi musicali delle scuole medie, oppure a papà sarebbe tanto piaciuto ma non c’era stata la possibilità, oppure fa figo cantare o suonare.
E spesso li riconosci da una comune caratteristica: non hanno fame di suonare, non approfittano di qualsiasi occasione, rifiutano di imparare da gente che sta sul campo da più tempo e che – fatta salva l’abilità tecnica sullo strumento – spessissimo ha solo da insegnargli. C’è ancora tanta passione in giro, ma è abbastanza dissimulata da tanti episodi di scarsa applicazione. Ciononostante oggi, ancora dopo tanti anni, vale l’aurea regola che se hai la passione un ragno dal buco in qualche maniera lo riesci a cavare.
Ai ragazzi a cui piace suonare dico: sporcatevi le mani, sappiate capire il percorso del segnale, chiedete, siate curiosi, mordete, pretendete dai service il giusto e non l’etereo (fantastiche certe richieste che vengono fatte talvolta ai fonici esterrefatti). La musica è capacità ma è anche sangue e talvolta perfino noia.
Ragazzi ve lo dico col cuore in mano, moccicate la musica. Moccicatela.