La tigna de la Rua


La Rua

Ecco, questa è una delle cose che dico da anni.

La Rua​, ex Champions Liga​. Questa band che ha cominciato a fare veramente sul serio nella musica leggera. Partita da un progetto tribute, con sforzo si è liberata dalle incrostazioni che da esso derivavano. Con metodo ha rincorso un suo stile, anche cadendo qua e là, ma poi – aiutata anche da un fuoriclasse come Dario Faini​ – ha trovato alla fine una quadratura coerente e intrigante. Certo all’inizio la scelta del nu-folk ha lasciato tutti interdetti, ma hanno avuto ragione loro.

Quello che caratterizza La Rua, il suo cantante Daniele Incicco (un treno Intercity) e tutti gli altri è l’adesione a un progetto, e soprattutto il gran lavoro per realizzarlo. Non si tratta di musicisti che lasciano stecchiti, ma hanno coltivato nel corso degli anni una coesione e una sagacia propositiva di ottimo livello.

A me ricordano – non certo per il genere ma per l’approccio – i Duran Duran. Di questi ultimi tempo fa ho letto la storia: da quando 17enni si unirono insieme per formare una band ebbero sempre in testa il proposito di migliorarsi. Ognuno di loro si impegnò come meglio poté, ognuno studiò, ognuno lavorò sui suoi punti deboli, fecero prove estenuanti, litigate omeriche, ma alla fine uscirono fuori alla grande. E non c’è niente da dirgli ai Duran Duran: anche io ai tempi preferii i Simple Minds e i Depeche Mode (anche di tanto), ma ho sempre riconosciuto a Le Bon e soci la tigna.

La stessa tigna io la ritrovo in questa band della nostra città, che ho visto nascere e poi crescere, ho visto faticare, talvolta retrocedere ma sempre per poi fare un passo più lungo. E’ quello che la maggior parte di chi si mette a fare musica non capirà mai: anche se hai un Michael Jackson dentro di te, se non lavori, se non ti impegni non vai da nessuna parte. E oggi, più che mai, ti devi impegnare tanto.

Auguro a La Rua (che seguo da lontano con simpatia) di ottenere quello per cui stanno lavorando indefessamente da almeno 10 anni, e auguro che la loro storia serva da esempio a chi cincischia in un mondo autoreferenziale pensando di essere il nuovo The Edge o il nuovo Elvis. E invece qua ce vo’ lu sudà, altroché.

Questo dico da anni, e lo consiglio a qualsiasi ragazzo che conosco.

LA RUA A CANALE 5

Bring the boys at home


Waters

Roger Waters – The Wall” è un film che ognuno dovrebbe vedere. Parte dal pretesto del concerto di Roger Waters, tenuto nonsodove nel 2014 (comunque in terra francese) ma è molto più che il didascalico resoconto di uno show. E’ n’esperienza, come direbbero i romani.

I piani di lettura dell’opera, come si sa, sono molteplici, e anche tornando dal cinema con Marco e Paolo si discuteva se fosse più importante, per Waters, il tema del rifiuto della guerra, quello della politica, quello della violenza dell’educazione, quello dell’incomunicabilità dell’individuo, o tutt’e quattro in parti uguali.

Certo è che Waters è un tipo piuttosto fulminato. I suoi temi scottano le mani, le sue parole sono sempre crude e affilate come rasoi, il suo atteggiamento sempre speculativo. Nondimeno però, e la cosa suona strana in chi come me ne aveva altra idea, Waters si lascia andare finalmente a qualche timido tremore sentimentale: se ne trova eco tra i dialoghi che scambia con i suoi accompagnatori in auto nel viaggio che lo condurrà, come ultima tappa, ad Anzio ove il padre morì in battaglia nel 1944. Ma soprattutto ve n’è evidenza nella riflessione, che fa con un filo di voce in auto, quando racconta del vecchio reduce che gli strinse le mani guardandolo negli occhi dicendogli: “Tuo padre sarebbe stato fiero di te“.

La presenza di Eric Fletcher Waters nella vita di suo figlio è palpabile in ogni parola che Roger dice o pensa, in ogni nota che suona, in ogni gesto che fa sul palco. E la pena sofferta da Roger nel corso di un’intera vita, quella di aver perso un padre senza averlo mai conosciuto, diviene paradigma di un disagio esistenziale profondo, lancinante.

Le lacrime della ragazza sotto al palco, lo scrollare la testa a occhi chiusi del ragazzo del pubblico, o il grido convulso e liberatorio di tutta la platea su “Another brick in the wall” o su “Comfortably numb” divengono celebrazione fisica e spirituale, e in parte – inevitabilmente – condivisione del dolore. Ha un bel sorridere Waters, ma non la riesce a raccontare a nessuno. Spero abbia fatto pace con il suo subconscio problematico, tantopiù che finalmente ha scoperto come andò nel 1944, dove e come il suo Eric abbandonò la vita.

Di tutta l’opera rock, a distanza di ben 35 anni dal giorno in cui la puntina del mio giradischi si posò per la prima volta sul disco bianco scritto a inchiostro, mi rimane ancora oggi il grido che riecheggia più di una volta tra i solchi: “Bring the boys at home“, riportate i figli a casa. Che poi è quello che né Roger, e per soprammercato nemmeno suo padre Eric, hanno visto realizzato, giacché anche il vecchio minatore, padre di Eric, era morto durante la Grande Guerra quando quest’ultimo aveva due anni.

Nessun grido diverso da “Bring the boys at home“, per mio conto, può descrivere quello che ogni figlio del cielo dovrebbe pensare della guerra, e nessuno l’ha saputo dire meglio di Roger Waters, dai più conosciuto come bassista dei Pink Floyd.

Moccicate la musica

Block Notes Valle Castellana

Quando avevo 18 anni i ragazzi a cui piaceva suonare avevano un solo sogno: avere un complesso. Ma non era facile: per suonare in un complesso ti dovevi caricare di debiti per comprare una vocale (come si chiamavano allora gli impianti di amplificazione) e soprattutto accettare, per poterla pagare, di suonare musica da feste di paese, e quindi il detestato liscio, la musica sudamericana, gli ultimi successi della radio.

Per i rockettari come me il bicchiere era amaro come la cicuta, perlomeno all’inizio. Poi pian piano ti rendevi conto che l’aspetto più bello dell’andare a suonare non era il suonare in sé, ma l’amicizia e l’umanità che ti scambiavi con i compagni di viaggio, con i comitati di festeggiamenti dei paesi che ti accoglievano sempre con rispetto e qualche volta con ammirazione. Suonare per noi era una sorta di riconoscimento, il premio per essersi impegnati a fare prove, per aver discusso con la famiglia che qualche volta non voleva (a me non è successo perché in casa si è sempre respirata musica), per aver faticato a montare gli strumenti, tutti da soli perché non era ancora tempo dei service e ogni complesso aveva il proprio impianto.

Mitiche le risate dovute ai numerosi episodi successi tra le nostre campagne, in paesi sperduti dove ne succedevano di tutti i colori e dove ogni volta tornavi a casa con episodi ridanciani da raccontare. Certi fatti e certi personaggi (penso ad esempio al compianto Pino Barba) sono addirittura entrati nella storia, così come certi palchi ove ti toccava suonare.

Quando ho cominciato io erano i tempi dei Well’s Fargo, dei Pentagono, dei Block Notes, ce n’erano tanti di complessi ad Ascoli. Era una bella esperienza perché erano complessi – come dire – generalistici, ovvero di musica leggera varia, non tribute band monotematiche che erano ancora di là da venire. E quindi ogni complesso aveva il proprio repertorio caratterizzante cesellato ad arte nel corso di estenuanti prove, ricordo la disco dei Well’s Fargo, gli incastri vocali dei Pentagono, le canzoni sempre ricercate del Miscuglio Magico, i pezzi talvolta assurdi ma bellissimi della Riunione Improvvisata.

Ma quel che ricordo meglio, sembra assurdo ma è proprio così, è l’odore della stalla ove facevo le prove con il mio primo complesso, i Manhattan. Tutti i complessi più o meno facevano le prove in una simil-stalla o fondacone, non c’erano le sale prova che ci sono ora, e allora ti dovevi adattare all’odore di letame che spesso caratterizzava le prove. Che è già bello di suo – chi ama la campagna ama quell’odore strano ma rassicurante – ma lì diventava quasi un rosolio.

Era bellissimo andare alle prove un po’ prima e suonare lo strumento di un altro – mi capitava spesso con il basso, ma anche con la chitarra elettrica o la batteria – e fare esperimenti che per me, a 18 anni, erano totalmente nuovi.

Ho suonato con veri amici, molti dei quali frequento ancora oggi. Con alcuni di essi ho coltivato un progetto parallelo, meno “suonato sul campo” ma non per questo meno formativo, il gruppo di musica inedita dei Nerkias.

Quelli della mia generazione hanno avuto tanta fortuna dalla musica, forse anche superiore ai reali meriti, ma rivendico a loro nome un impegno che è andato al di là del semplice studiarsi le canzoni e cercare di migliorare come strumentisti o come cantanti. Quasi tutti gli strumentisti degli anni 70/80 hanno sempre voluto sapere come funzionavano le cose, come si montavano gli strumenti, che viaggio faceva il suono dallo strumento alle casse che irradiavano la musica sul pubblico. Anche perché molto spesso si era fonici di sé stessi, e non potevi fare altrimenti.

Non intendo scivolare sulla buccia di banana dell’esaltazione di ciò che è stato a sfavore di ciò che è, anche perché non lo penso affatto. Anzi, vedo tanta, tanta capacità in più di suonare nei ragazzini di oggi, anche per la fortunata abbondanza di offerta delle scuole di musica. Certo a prima vista sembrerebbe cogliere un pelo di passione in meno, ma ciò non dipende dal fatto che c’è meno passione. Molti suonano o cantano perché in un certo qual modo “devono”, sono stati instradati, oppure gli somministrano la musica a scuola con quei bellissimi percorsi musicali delle scuole medie, oppure a papà sarebbe tanto piaciuto ma non c’era stata la possibilità, oppure fa figo cantare o suonare.

E spesso li riconosci da una comune caratteristica: non hanno fame di suonare, non approfittano di qualsiasi occasione, rifiutano di imparare da gente che sta sul campo da più tempo e che – fatta salva l’abilità tecnica sullo strumento – spessissimo ha solo da insegnargli. C’è ancora tanta passione in giro, ma è abbastanza dissimulata da tanti episodi di scarsa applicazione. Ciononostante oggi, ancora dopo tanti anni, vale l’aurea regola che se hai la passione un ragno dal buco in qualche maniera lo riesci a cavare.

Ai ragazzi a cui piace suonare dico: sporcatevi le mani, sappiate capire il percorso del segnale, chiedete, siate curiosi, mordete, pretendete dai service il giusto e non l’etereo (fantastiche certe richieste che vengono fatte talvolta ai fonici esterrefatti). La musica è capacità ma è anche sangue e talvolta perfino noia.

Ragazzi ve lo dico col cuore in mano, moccicate la musica. Moccicatela.

Favoloso

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Ascoltato stasera, al buio come consigliato dall’autore stesso. Sul monitor del PC gli istogrammi del Media Player su sfondo nero. Io, di qua, da solo con la cuffia buona; Eldomino che se la canta da là dentro a 16 bit.

Tre soli pezzi, una specie di pit stop in attesa di un nuovo album. L’esigenza dichiarata impellente di rielaborare una serie di input dopo la visione del film “Il giovane favoloso”.

Il risultato delle elucubrazioni dell’artista sembrerebbe poco leopardiano al primo ascolto, ma se Leopardi non è (solo) ciò che abbiamo studiato a scuola ma è l’appassionato giovane reso dal film, allora la freccia di Eldì gli ha centrato la mela sulla testa.

Ho trovato Favoloso EP intenso, emozionante, maturo. Non banale, creativo, a suo modo colto. Non ho bisogno di risentirlo – cosa che farò a breve – per dire che questo è l’ennesimo buon colpo piazzato da ElDomino​.

La mia proverbiale ansia da classifiche (sono nato pur sempre negli anni ’60) mi fa porre “Diabolico” sul terzo gradino, “Risveglio” nella piazza d’onore e la fantastica, evolvente, magistrale “Autunno” in cima alla scaletta. Chiaramente fra un mese la penserò diversamente, e lì sta il bello.

La sordità del fonico – come rappa Eldomino – mi impone di evidenziare un mix non impeccabile proprio nel bellissimo pezzo di apertura dell’EP, e per sordità intendo l’empietà che hanno i tecnici di voler per forza analizzare aspetti extrartistici così poco importanti per il pubblico ascoltante.

Flavio evolve ulteriormente rispetto a “RèportAge”, che ben ci aveva impressionato poco più di un anno fa (qui la recensione), e lo fa nutrendo non solo l’immaginazione, la mente, il subconscio personale di chi ascolta, ma soprattutto il cuore.

Ascoltare “Risveglio”, la track che chiude il miniCD, per credere.

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Il mondo di Emma

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Emma Marrone c’è rimasta male per come è andata al festival europeo. E come dargli torto, 21esima ad anni luce da Conchita la barbuta. Non ha gradito le feroci critiche del pubblico e dei media.

Questa ragazza – Dio l’abbia in gloria per la sua bellezza fisica purtroppo non apparentemente accompagnata da altrettanti contenuti interiori – è il tipico prodotto della TV malata della ditta De Filippi-Costanzo, della quale non si potrà mai parlar male abbastanza.
Sopravvalutata, catapultata in un mondo ove dovrebbe essere importante la voce tanto quanto l’immagine tanto quanto la misura tanto quanto la sensibilità tanto quanto – e questo è il punto – un minimo di gavetta, ovvero di mestiere. Che gran bella parola questa, il mestiere.

Invece questi ragazzi si ritrovano sulla bocca di tutti, sulle prime pagine dei giornaletti, nelle cliccate di YouTube non più tardi di venti giorni dopo il loro esordio in TV. E questa è una circostanza che accapponerebbe un bue. E’ già difficile sostenere l’improvvisa ondata di notorietà per l’artista che finalmente ce la fa dopo qualche anno di trotto veloce (penso, ad esempio, al crollo emotivo di Tiziano Ferro alla finale del Festivalbar, qualche anno fa, quando cominciò a piangere come un bambino di fronte alla folla osannante), ma un ragazzetto di meno di 20 anni che si è fatto tre anni di scuola di canto e invece che cantare grida (ma si impara a pappagallo tutte le mosse che servono per apparire in TV ed avere successo) non ha alcuna probabilità di uscirne sano.

E quindi Emma: se l’accusano di essere una camionista è perché E’ una camionista. Non c’è ombra di introspezione nelle sue canzoni, non cambi di registro, non scale di grigio mentre canta. Grida sempre, urla a gola spiegata, non si ricorda una canzone veramente bella del suo repertorio: la migliore a mio avviso, Con le nuvole del nostro Dario Faini, comunque non può reggere in confronto a quelle dei cantanti “veri”.

In questi anni probabilmente Ornella Vanoni se ne starebbe all’angolo, magari Mina emergerebbe comunque, ma che fatica, e forse solo per la bellezza. Chissà Mia Martini, bruttina com’era.

E sì che in Italia abbiamo Elisa, dimolto bruttina anche lei ma che roba. E Petra Magoni, che in un mondo perfetto scalerebbe le classifiche. E altre, cacchio se ce ne sono in giro, ma non hanno la fortuna – a mio avviso la sfortuna – di essere piaciute alla De Filippi e quindi di essere finite nel tritacarne mediatico e finanziario.

Perché si sappia: questi ragazzi vengono spremuti come limoni e abbandonati a un futuro di frustrazioni e probabile perdizione emotiva, senza aver guadagnato un euro giacché finché sono sulla cresta dell’onda hanno un contratto capestro con società legate alla conduzione del programma. Che pena, e che schifo questa TV che comunque – va riconosciuto obtorto collo – sembra avere così tanto successo. E l’incultura avanza.

Stattene un po’ con le ali ripiegate Emmina, che te fa be’. Chissà che non ti rendi conto di quello che ti manca.

Certo le cosse no.

 

La damiciana spagghiata

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Mai tornare sul luogo ove si è stati felici. Quindi, per quanto mi riguarda, mai tornare al liceo, palestra di vita e serraglio di varia umanità da cui sono partito anni fa.

Con una distinzione: se in una vacanza, in un accadimento puntuale, oppure in un amore di tanto tempo fa era già evidente fin da allora che si trattasse di un bel momento, quando eravamo al liceo eravamo felici e non lo sapevamo. Troppo compressi dalla situazione, da qualche professore bestia e da tutti gli altri che – aveva detto bene Luca Carboni in Silvia lo sai – non ci chiedevano mai se eravamo felici.

Ieri quindi, quando mi apprestavo con qualcuno della mia band nata al liceo a varcare la soglia dell’Antonio Orsini per una piccola esibizione in aula magna, ero piuttosto titubante anche se cercavo di dissimulare le mie cogitazioni con un’espressione ilare. Semplicemente, ero emozionato. Non è che mi capiti più tanto, in generale.

Poi sono arrivati gli altri del gruppo, abbiamo riso come raramente ci accade e ci siamo fatti le foto da bimbiminkia nella nostra vecchia aula nella cui lavagna – come ai tempi d’oro – erano riportate frasi a sfondo pecoreccio.

Il concerto – o meglio il recital – non lo so com’è andato, bisognerebbe chiederlo ai ragazzi che dapprima sono sembrati piuttosto spaesati ma poi si sono riscaldati subito, ma non è che alla fine interessi più di tanto.

E’ che queste sono occasioni del cuore (come chiamarle diversamente?) valide per visitare da turisti il paese da cui sei partito anni fa e nel quale sai che non tornerai più ad abitare. Le lotte ideologiche della mia generazione, sconfitta dal conformismo generale e dalla televisione, sembrano lontane anni luce.

E voi ragazzi, che spettacolo che siete! Come sempre, come in tutte le epoche,  belli e immacolati, inadeguati con il vostro cellulare connaturato e il non sapere che significa damiciana spagghiata o lu totera. Qualcuno pieno di brufolazzi, altre che girano tenendosi per mano, altri che rimangono alla fine ad aiutare Teresa a rimettere a posto l’aula magna. Tutti, indistintamente, col viso inondato dal sole dell’autogestione.

Sembravamo destinati con i Nerkias a passare una giornata sopra a una damiciana spagghiata, e invece è stato veramente un piacere.

ragazzi

 

 

L’amico Philip

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E allora a quanto pare l’amico Philip Seymour-Hoffman non ce l’ha fatta. Ricascato nella merda dell’eroina dopo tanti anni, ci ha lasciato la pelle.

Sorprende constatare quanto affetto avesse  incamerato nella sua esistenza questo attore decisamente non bello, a prima vista direi addirittura anonimo, un po’ goffo, che come cominciava il film diventava magicamente il centro dell’attenzione, anche nei ruoli che lo vedevano comprimario. Con quella faccia paffuta da amicone della porta accanto, quello a cui avresti lasciato le chiavi di casa chiedendogli di annaffiare il basilico.

Oggi tutti citano l’incredibile interpretazione di Truman Capote, ove riuscì a trasformarsi in ogni cellula del suo corpo, direi soprattutto nella voce e nella postura, per raggiungere la vetta di credibilità che gli ha fruttato il suo unico Oscar. Ma ci piace invece ricordarlo, e con affetto, per una interpretazione considerata minore, quel personaggio del film Patch Adams che, al fianco del gigioneggiante grandissimo Robin Williams, impersona lo studente rosso di capelli frustrato per la sua inabilità comunicativa ma determinato a studiare la materia per sincera passione di diventare medico. Chi non ricorda il suo faccia a faccia con Adams-Williams, quando gli rinfaccia il carattere migliore e la capacità empatica nei confronti delle persone?

Ma forse questa è solo una fissa, una piccola parte in un film nel quale molti magari nemmeno ricorderanno il suo tenero personaggio, in qualche modo offuscato da Williams.

Dobbiamo pur scegliere però qualcosa di mitico per ricordarlo, glielo dobbiamo. E allora eccolo nel monologo finale del film I love Radio Rock, un gran pezzo di cinema e un finale indimenticabile. Non a caso un film sulla musica, quest’arte che rende migliore tutto ciò che tocca.

La barca pirata che ospita un gruppo di DJ isolati in nome della libertà sta affondando, Radio Rock con essa, il sogno di migliaia di teenager pure. E il Conte americano (il nostro Philip) trasmette così la sua ultima canzone:

Cari ascoltatori, vi dico solo questo: che Dio vi benedica.

Quanto a voi, bastardi al potere, non sperate che sia finita! Anni che partono, anni che vengono e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo un posto migliore. Ma ovunque nel mondo, ragazzi e ragazze avranno sempre i loro sogni, e tradurranno quei sogni in canzoni.

Non muore niente di importante questa notte! Solo quattro brutti ceffi su una nave di merda! L’unico dispiacere stanotte è che negli anni futuri ci saranno tante fantastiche canzoni, che non sarà nostro privilegio trasmettere ma, credete a me, saranno comunque scritte. E saranno comunque cantate. E saranno comunque la meraviglia del mondo!

 

 

Io e il signor G

Giorgio Gaber

Il mondo pullula di gaberiani. Essere gaberiano fa fico, fa intellettuale. Il gaberiano – così come il pasoliniano – ha sempre ragione nell’amarezza di ciò che dice, di ciò che cita. Se potesse tornare indietro Giorgio, anche per un attimo, quanta di questa gente manderebbe a ramengo. Proprio lui, sotto il cui ombrello un sacco di gente si dà convegno, il primo ad essere andato in giro per una vita senza alcun ombrello.

Ma perché è tanto difficile da capire questo personaggio?

Al festival di Gaber di Viareggio nel corso degli anni si sono visti sfilare articoli al limite della facezia. Pazienza per Pausini, Baglioni, Ruggeri, dài ci sta. Ma santa pupazza, pure la Marrone e Mengoni non me li aspettavo proprio a discettare dal palco di questo menestrello agrodolce che ha a suo modo rivoluzionato il modo di fare spettacolo in Italia. Ma che ci azzeccano con lui? Che cosa con il teatro canzone?

Perché Gaber, lo ricordo innanzitutto a me stesso, il meglio l’ha dato nel trentennio – trentennio! – in cui si è dedicato al teatro canzone. Io l’ho scoperto a causa della galeotta infatuazione per una bella ragazza, a suo tempo, che mi impose l’ascolto di una musicassetta di “Dialogo tra un impegnato e un non so”. Due ore di un pomeriggio a sentire una cosa che io all’epoca – abbacinato dalla musica rock degli anni ’70 e ’80 – non potevo mai pensare nemmeno che esistesse.

Poi Giorgio Gaber fece un concerto al Ventidio, una ventina di anni fa, forse meno. Fu un’esperienza memorabile, l’unica volta – insieme al concerto di Peter Gabriel di Marino di Roma – in cui ho pensato “Ecco, quello lì sopra vorrei essere io”. Ho cercato nel corso degli anni di studiare questi due grandi artisti, innovatori e assolutamente unici, per carpirne qualcosa. Ma a Gaber in particolare mi lega un particolare affetto per la sua italianità, l’amore per l’eloquio non banale, frammisto, composito, bianco e nero, grigio grigetto, l’utilizzo di un buon italiano (gran cosa l’italiano), il gusto per la battuta salace, non comica ma nemmeno sprezzante.

E sì, perché quello che emerge dall’opera di Gaber è soprattutto una (peraltro ben dissimulata) pietas per il genere umano, una specie di sentimento di condivisione solitaria, che sembra un ossimoro e invece è l’esatta natura del suo carattere e della sua posizione, solo apparentemente snobista e invece intrisa di reale addoloramento (dolore mi sembra troppo) per il destino della patria, della morale, della nazione, dell’umanità.

Oggi tutto ciò che parla di Gaber è santificazione. E’ stato detestato dalla sua stessa sinistra – lui marito di Ombretta Colli tarda roccaforte del Berlusca – perché ad essa non ha mai aderito veramente, detestato dalla destra per non averle mai risparmiato il suo disprezzo. Con “Destra e sinistra” ha menato uguale mettendo alla berlina l’intellighenzia radical chic e la protervia della destra sociale, tutti in un calderone di frasi fatte e catalogazioni da burletta.

Gaber non è quello della Torpedo blu come Fossati non è quello della Banda suona il rock o De Andrè quello di Marinella, si farebbe grave torto a tutti loro se lo si pensasse. Il monologo “Una sedia da spostare” (uno dei più belli di tutti i tempi, ci cominciò proprio lo spettacolo ad Ascoli) rende forse al nostro Giorgio miglior giustizia, insieme a tutta la sua produzione parlata del teatro canzone. E a differenza di altri intellettuali tipo Fo o Pasolini, il duo Gaber/Luporini ha sempre gettato là un seme, una parola, senza alcuna pretesa manichea, senza alcuna pretesa didascalica.

Fastidioso, scomodo, urticante, amaro. Così è stato Gaber, assolutamente al di sopra del miserando agone di certa politica, come piace a me. Uscendo da un suo spettacolo non potevi fare a meno di ammirarlo e volergli bene.

E l’ammirazione e il bene, di questi tempi, si riserva ormai solo ai propri familiari.

 

 

 

Delirio dell’appassionato di musica

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Pochi sanno quanta maestria e quanto sforzo siano celati dietro la lavorazione di un brano in sala di registrazione. Scegliere il microfono giusto in base a cosa bisogna riprendere, posizionarlo, collegarlo a un preamplificatore, scegliere se a valvole, a stato solido (transistor) o ibrido, e poi collegarlo a dei convertitori dall’analogico al digitale che perdano meno possibile (perché qualcosa perdono inevitabilmente) della magia dell’esecuzione.

Digitalizzato il suono all’interno del software di gestione (ormai fanno tutti così, non si registra più su nastro dalla metà degli anni ’90) fare le opportune scelte di editing (manipolazione) del suono, poi affrontare la bestia nera di tutte le produzioni: il mix del brano, che ne decreterà la riuscita o meno. Per quest’ultima regola non esistono eccezioni. Sforzarsi magari di fare un mix analogico, facendo passare il suono attraverso macchine (costosissime) che tendano a rendere maggiormente “vivo e vero” il suono stesso, e poi inviare il tutto a uno studio di mastering per finalizzare il pezzo.

Il ragazzino – ma fosse solo il ragazzino! – che usufruirà del risultato di tutti questi sforzi ascolterà la musica utilizzando il cellulare come lettore, due cuffiette da 12 euro come diffusori e una codifica mp3 magari a 128 kbps. Che se devi ascoltare il rap – ‘sta bestia che non ha bisogno di fedeltà audio per funzionare – può anche andare bene, ma se vuoi godere di musica di alto livello veramente grida vendetta.

Ringrazio il cielo di avermi fatto vivere l’adolescenza con i dischi in vinile, con solo 5 brani di qua e 5 di là, con la puntina che friggeva, la spazzoletta da passare prima di abbassare la puntina, le casse grandi di legno, gli amici da stupire con l’amplificatore a manetta. E “8:30” dei Weather Report, il disco dal vivo, registrazione fantastica ancora oggi insuperata da qualsiasi versione digitale.

C’è anche chi ha registrato in presa diretta sul vinile senza filtri: ricordate, come nel film “La leggenda del pianista sull’oceano” quando Novecento registra direttamente su disco il suo pianoforte guardando la ragazza bionda di cui è innamorato. Così, se non ricordo male, hanno fatto in uno dei loro dischi gli Spyro Gyra, come a voler dire: questi siamo noi senza filtri.

Tempo fa mio figlio vedendo i miei vecchi LP mi ha chiesto quanti brani ci entrassero in un supporto così ingombrante. Alla mia risposta (massimo dodici), si è meravigliato moltissimo; quando ha saputo che poi dovevi anche girare il disco dall’altra parte dopo 5 o 6 brani si è chiesto come faccia io ad amare così tanto il vinile.

Che dire, per spiegarlo dovrei parlare per ore con la sicurezza di non essere capito fino in fondo. Poi ci siamo ascoltati “Black Market” da 8:30, una delle più belle esecuzioni di tutti i tempi, e mi è stato chiaro che aver perso il discernimento della musica registrata bene, pur guadagnando un catalogo potenzialmente infinito su internet, è stato un danno sottile, non percepibile proprio perché dissimulato dalla accresciuta disponibilità di scelta.

La disponibilità infinita di scelta, questo nemico della generazione del terzo millennio.

 

 

 

Mecco canta Dalla

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Ho utilizzato ieri sera due ore dell’unica vita che ho per vedere lo show MECCO CANTA DALLA, presentato dal mio amico Francesco Villani al C-Lounge ad Ascoli.

Investimento che – non c’è che dire –  ha dato i suoi graditi ritorni.

Il percorso dalliano di Mecco si snoda attraverso le canzoni più belle (più popolari?) di Lucio Dalla, cantautore tra i più interessanti della scena italiana degli ultimi 40 anni. Non ho mai avuto una particolare predilezione per Dalla (sono vascorossiano da sempre, casomai), ma riconosco al villoso cantautore bolognese una cosa, peraltro molto importante: la freschezza delle idee. E cioè: canzoni molto diverse l’una dall’altra, seppure all’interno di un rassicurante alveo fatto di lingua scelta, umorismo e ironia (sempre), versi immaginifici, significati (quasi sempre) trascendenti.

Mecco interpreta il suo cantante preferito (diremmo il suo unico cantante preferito, come sembra) con un’adesione profonda al personaggio, seppure non sempre al suo modo di cantare. Sembra che Mecco sia dalliano soprattutto nell’approccio, nella filosofia. Difficile da spiegare, è un po’ tutto condensato nel suo modo di alternare gli altissimo con i sussurri, quel modo tutto dalliano di presentare i suoi pezzi in maniera mai banale e mai del tutto seria.

Ho sempre creduto che Mecco abbia un passo più profondo rispetto a tanti pur bravi artisti ascolani, e spero per lui che le sue canzoni inedite trovino una forma-spettacolo definitiva che gli consenta di volare con le sue ali. Certo è che “L’Apostolo”, “Isse” e le altre presentate sono pezzi molto interessanti, influenzati da Lucio Dalla ma assolutamente pregni di villanismo. Mai di villanìa, ché tra l’altro il nostro insegna religione.

Belli i siparietti con gli ottimi musicisti Bruno Censori (chitarre), Stefano Diotallevi (basso) e Daniele Di Pietro (batteria), nei quali il Villico si lascia andare a irresistibili, e ormai ben conosciuti, giudizi di valore (“semare!” ha gridato a più riprese, suonando, alla sua spalla chitarristica Bruno, tra l’ilarità generale). Piace anche l’innesto della guest singer Maria Chiara Sabbatini, elegante come sempre e a suo agio sul palco come sempre, con la sua conosciuta capacità di variare tra prima e controcanto ad un battere di ciglia.

Sappiamo che Mecco sta lavorando a un progetto personale di vaglia che vorrebbe proporre a livello nazionale, e ne siamo felicissimi. Riuscirà il nostro professore a spuntarla in questo panorama di X-Factorini e Amicine con le sue canzoni che costringono a pensare?

Pensare, che bella parola.