Freaks Out

Sono andato a vederlo, sebbene pensassi aprioristicamente che non fosse il mio genere preferito. Solo che Mainetti dopo Jeeg Robot mi poteva fa’ pure una frittata all’aborrito formaggio, me la sarei magnata tanto l’ho stimato nell’opera prima.

Pensavo a un filmetto, e invece porcozzìo. E questo non è un giudizio qualitativo, ma proprio un’analisi della pellicola dal punto di vista finanziario, giacché non so quanto ci sia voluto per realizzarlo in termini di piotte ma è un’opera veramente notevole, sia come effetti speciali che come ricostruzioni delle ambientazioni che come impiego di risorse in generale.

Freak Out è un caleidoscopio di diversi generi, con continui riferimenti al grande cinema: il richiamo a Fellini è lapalissiano fin dalla prima scena, ma anche il gusto tutto zavattiniano per l’immaginifico è fortissimo (bellissima l’immagine dei circensi sparati in aria che volano sotto la luna, una sorta di ET senza bicicletta o, se vogliamo, degli spazzini verso il cielo del finale di Miracolo a Milano).

Il plot, così come i dialoghi, attraversa vari registri (evitando con cura quello sentimentale) sempre rimanendo borderline, a un passo dal grottesco ma senza scadervi completamente dentro: memorabile – fra le altre – la rappresentazione della partigianeria, accozzaglia improbabile di reduci feroci e spavaldi ma soprattutto irresistibilmente comici, capitanati dal gobbo Max Mazzotta, uno dei miei caratteristi preferiti nell’attuale cinema italiano.

Il sentimento qui non viene sparso come miele sulla testa degli spettatori come succede in certa produzione americana: te lo devi andare a scovare tra le pieghe delle espressioni dei personaggi, tra le parole smozzicate o addirittura non dette, negli sguardi di Matilde o nelle citazioni finto-dotte del Lupo (o magari dotte davvero, ché il Lupo è personaggio di gran vaglia). Ed è proprio questa immarcescibile tendenza alla ricerca del sentimento che ti fa arrivare, per assurdo, a simpatizzare per il crucco senza una rotella che suona i Radiohead per effetto di una trovata narrativa singolare.

Ma è proprio tutto il film a essere cosparso contemporaneamente di violenza e risata, di drammaticità e corbelleria, di banalità e spettacolarità. E di poesia, molta anzi moltissima, come quella di un biondo che doma le lucciole o di un irresistibile direttore rumorista, ma anche di trivialità, anche quella cosparsa in buone dosi e apparentemente gratuita, come il tipo che non perde occasione per esplodere nell’onanismo. Ognuno è rappresentato nella sua umanità, nient’affatto decifrabile in maniera univoca: come ognuno di noi, ogni personaggio reca in sé le sue sfumature che spaziano dal giallo al ciano al magenta al nero.

A mio avviso è un film da vedere, sì in tutte le due ore e quasi mezza, perché comunque andranno le cose, cioè se piacerà o meno, si verrà risucchiati da un mondo fantastico in mezzo a storie bislacche e a personaggi degni di una fiaba di Dickens.

Si toccano temi importanti, anche, come la forza della gratitudine, la pesantezza della diversità, il rapporto tra la prevaricazione e la resistenza, l’influenza dell’infanzia sulla nostra storia personale, l’importanza dell’incontro delle anime simili. Il tutto non necessariamente detto esplicitamente, tutto un po’ da scoprire. Non si piangerà mai, al contrario scapperà una risata nel mezzo di una scena cruenta per una battuta ai limiti dell’assurdo, un po’ Chaplin un po’ Tarantino (“T’avevo detto che t’ammazzavo” dice il Lupo all’orecchio dell’aguzzino in un passaggio strepitoso).

Non mi è bastato solo un giorno per ragionarci sopra, me ne prenderò altri per focalizzare meglio passaggi apparentemente meno significativi. Ma l’impressione è che – come dice la mia amica Barbara – questo sia un film che ne contiene venti.

Mainetti s’è spise tutte lu cucuzzare, ma mi sa che piglierà più d’un premio.

Pelè, 1958

PELE

Ero piccolino quando papà mi snocciolava la formazione del Brasile del 1958: Gilmar, Djalma Santos, Nilton SantosZito, Bellini, OrlandoGarrincha, Didi, Vavà, Pelè, Zagallo. Me la sono imparata perfino io nel corso degli anni, unica formazione che ricordo a memoria senza esitazioni insieme a quella dell’Ascoli che passò per la prima volta dalla serie C alla B (Masoni Vezzoso Schicchi, Pagani Castoldi Minigutti, Colombini Vivani Bertarelli Gola Campanini).
Solo che io nel 1958 non ero nemmeno un progetto nella testa dei miei genitori, che ancora non si conoscevano.
E’ per questo che sono andato a vedere il film “Pelè“, ieri, con mio figlio. Lo dovevo ad anni e anni di racconti di mio padre: le gambe storte di Djalma Santos, le ubriacanti discese a zig-zag di Garrincha, la potenza di Vavà, la velocità di Zagallo e naturalmente, sopra a tutti, l’infinita classe del diciassettenne Pelè, un fagiolino di 1,70 metri che all’Italia, nel 1970, in finale fece un gol di testa alzandosi un metro da terra che ancora Burnich se lo ricorda.
Il film è straordinario, bellissimo. Non può non piacere a chi ami il calcio, ma anche a chi non piacesse questo sport lascerebbe comunque una scia di emozione, essendo storia di sofferenza, di amore, di impegno, di riscatto.
E quando, nelle scritte finali, si ripercorre la carriera di Pelè successiva a quella magica estate del 1958, il momento più bello è quando appare l’unica cosa che Pelè non è riuscito a fare, cinque gol nello stesso match. Cosa riuscita in carriera a suo padre, giocatore come lui.
Un film che mi ha emozionato come pochi. Lo danno ancora al Città delle Stelle, io l’ho visto al Piceno e nella sala c’eravamo solo io e mio figlio di 12 anni, che alla fine della proiezione non ha potuto trattenere un’esclamazione: “Che filmone!”

Bring the boys at home


Waters

Roger Waters – The Wall” è un film che ognuno dovrebbe vedere. Parte dal pretesto del concerto di Roger Waters, tenuto nonsodove nel 2014 (comunque in terra francese) ma è molto più che il didascalico resoconto di uno show. E’ n’esperienza, come direbbero i romani.

I piani di lettura dell’opera, come si sa, sono molteplici, e anche tornando dal cinema con Marco e Paolo si discuteva se fosse più importante, per Waters, il tema del rifiuto della guerra, quello della politica, quello della violenza dell’educazione, quello dell’incomunicabilità dell’individuo, o tutt’e quattro in parti uguali.

Certo è che Waters è un tipo piuttosto fulminato. I suoi temi scottano le mani, le sue parole sono sempre crude e affilate come rasoi, il suo atteggiamento sempre speculativo. Nondimeno però, e la cosa suona strana in chi come me ne aveva altra idea, Waters si lascia andare finalmente a qualche timido tremore sentimentale: se ne trova eco tra i dialoghi che scambia con i suoi accompagnatori in auto nel viaggio che lo condurrà, come ultima tappa, ad Anzio ove il padre morì in battaglia nel 1944. Ma soprattutto ve n’è evidenza nella riflessione, che fa con un filo di voce in auto, quando racconta del vecchio reduce che gli strinse le mani guardandolo negli occhi dicendogli: “Tuo padre sarebbe stato fiero di te“.

La presenza di Eric Fletcher Waters nella vita di suo figlio è palpabile in ogni parola che Roger dice o pensa, in ogni nota che suona, in ogni gesto che fa sul palco. E la pena sofferta da Roger nel corso di un’intera vita, quella di aver perso un padre senza averlo mai conosciuto, diviene paradigma di un disagio esistenziale profondo, lancinante.

Le lacrime della ragazza sotto al palco, lo scrollare la testa a occhi chiusi del ragazzo del pubblico, o il grido convulso e liberatorio di tutta la platea su “Another brick in the wall” o su “Comfortably numb” divengono celebrazione fisica e spirituale, e in parte – inevitabilmente – condivisione del dolore. Ha un bel sorridere Waters, ma non la riesce a raccontare a nessuno. Spero abbia fatto pace con il suo subconscio problematico, tantopiù che finalmente ha scoperto come andò nel 1944, dove e come il suo Eric abbandonò la vita.

Di tutta l’opera rock, a distanza di ben 35 anni dal giorno in cui la puntina del mio giradischi si posò per la prima volta sul disco bianco scritto a inchiostro, mi rimane ancora oggi il grido che riecheggia più di una volta tra i solchi: “Bring the boys at home“, riportate i figli a casa. Che poi è quello che né Roger, e per soprammercato nemmeno suo padre Eric, hanno visto realizzato, giacché anche il vecchio minatore, padre di Eric, era morto durante la Grande Guerra quando quest’ultimo aveva due anni.

Nessun grido diverso da “Bring the boys at home“, per mio conto, può descrivere quello che ogni figlio del cielo dovrebbe pensare della guerra, e nessuno l’ha saputo dire meglio di Roger Waters, dai più conosciuto come bassista dei Pink Floyd.

8 e mezzo

 

Immagine

Vabbè ci provo lo stesso, faccio il salmone e vado contro corrente.

A me La grande bellezza è piaciuto un bel po’. E’ decisamente un film non anonimo, può piacere come piacere meno, ma se hai il tipo di sensibilità che ti mette sulla stessa lunghezza d’onda del regista allora ti accorgi, come me ne sono accorto io, che è un piccolo capolavoro.

E’ acclarato che ci siano scene (tutto il quarto d’ora iniziale, ad esempio) che ti tentano ad uscire dalla sala e farti una partitina a bowling, ma a me è successa una cosa strana. Credo di aver meditato l’abbandono almeno 20 volte, e per 21 volte ho deciso di continuare e arrivare alla fine perché ogni scena di questo film provoca riflessioni, fa interrogare su qualcosa, e ognuna di esse contiene almeno un elemento che te la farà ricordare a lungo. O per sempre, come nel caso di tutto il soliloquio sul funerale.

Ma prendi anche i singoli personaggi, il fetido omuncolo che dice a più riprese “te chiavasse” alla cubista, l’inadeguato artista impersonato da Verdone (che condivide con la Ferilli, qui decente, l’unico sprazzo di umanità), la sparata d’un fiato di Gambardella-Servillo contro la magra menzognera, l’improbabile ma vivo personaggio della “nostra” nana Giovanna Vignola.

Senza parlare degli scorci di Roma, fotografata veramente alla grande. Finora avevo visto fare qualcosa di tecnicamente meraviglioso solo da Woody Allen in “To Rome with love”, ma questa Roma è come fosse fotografata da Newton, squarci che si aprono, ogni inquadratura un quadro d’autore. Penso agli ambienti, alle case patrizie, alla scena all’interno del laboratorio estetico, all’ambiente ove la Ferilli prova l’abito da lutto.

E’ una Roma che non ha scampo quella di Sorrentino, e tutti noi sappiamo che la nostra capitale, pur sicuramente non in buone acque, non è così. E forse è proprio per questo che gli americani ci hanno dato l’Oscar, credono che quello sia un ritratto veritiero. Ma un film è un film, e questo diventa paradigma della visione nichilista di Sorrentino solo per due ore (e quasi mezza).

Il palato degli italiani, a mio avviso disarticolato da tanto cinema d’avventura americano, non ha più gli anticorpi per apprezzare un film lento. Nella nostra città poi ci si è messo anche l’ostracismo verso Sorrentino a causa di un sipario infelice in un suo libro nei confronti degli ascolani. A questo punto immagino che i romani coltivino l’aspettativa di buttarlo in mezzo ai leoni del Colosseo.

Quindi dire che La grande bellezza non è un film per tutti non deve parere una smargiassata da intellettualoide. E’ realmente così, e lo è a causa del suo approccio dolente, disincantato e apparentemente vacuo, per la sbandierata apatia morale, per la mancanza di una storia. Tutta roba abbastanza fuori moda.

Un grandissimo del cinema italiano, Giuseppe Tornatore, ci ha abituato a storie meravigliose, e a dirla tutta anche io preferisco quel tipo di cinema. Mentre questo Sorrentino lavora su quadri, su sentimenti sfiorati, intuìti, su personaggi cialtroneschi al limite del ridicolo, tutto sempre sotto traccia, coperto da una finta indifferenza e da un finto didascalismo che divengono, come quelli di Verga, giudizio potentissimo.

Non si può chiudere senza una parola su Toni Servillo: l’Oscar è suo, altro che cazzi.

Per me voto 8 e mezzo, come Fellini.

 

L’amico Philip

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E allora a quanto pare l’amico Philip Seymour-Hoffman non ce l’ha fatta. Ricascato nella merda dell’eroina dopo tanti anni, ci ha lasciato la pelle.

Sorprende constatare quanto affetto avesse  incamerato nella sua esistenza questo attore decisamente non bello, a prima vista direi addirittura anonimo, un po’ goffo, che come cominciava il film diventava magicamente il centro dell’attenzione, anche nei ruoli che lo vedevano comprimario. Con quella faccia paffuta da amicone della porta accanto, quello a cui avresti lasciato le chiavi di casa chiedendogli di annaffiare il basilico.

Oggi tutti citano l’incredibile interpretazione di Truman Capote, ove riuscì a trasformarsi in ogni cellula del suo corpo, direi soprattutto nella voce e nella postura, per raggiungere la vetta di credibilità che gli ha fruttato il suo unico Oscar. Ma ci piace invece ricordarlo, e con affetto, per una interpretazione considerata minore, quel personaggio del film Patch Adams che, al fianco del gigioneggiante grandissimo Robin Williams, impersona lo studente rosso di capelli frustrato per la sua inabilità comunicativa ma determinato a studiare la materia per sincera passione di diventare medico. Chi non ricorda il suo faccia a faccia con Adams-Williams, quando gli rinfaccia il carattere migliore e la capacità empatica nei confronti delle persone?

Ma forse questa è solo una fissa, una piccola parte in un film nel quale molti magari nemmeno ricorderanno il suo tenero personaggio, in qualche modo offuscato da Williams.

Dobbiamo pur scegliere però qualcosa di mitico per ricordarlo, glielo dobbiamo. E allora eccolo nel monologo finale del film I love Radio Rock, un gran pezzo di cinema e un finale indimenticabile. Non a caso un film sulla musica, quest’arte che rende migliore tutto ciò che tocca.

La barca pirata che ospita un gruppo di DJ isolati in nome della libertà sta affondando, Radio Rock con essa, il sogno di migliaia di teenager pure. E il Conte americano (il nostro Philip) trasmette così la sua ultima canzone:

Cari ascoltatori, vi dico solo questo: che Dio vi benedica.

Quanto a voi, bastardi al potere, non sperate che sia finita! Anni che partono, anni che vengono e i politici non faranno mai un cazzo per rendere il mondo un posto migliore. Ma ovunque nel mondo, ragazzi e ragazze avranno sempre i loro sogni, e tradurranno quei sogni in canzoni.

Non muore niente di importante questa notte! Solo quattro brutti ceffi su una nave di merda! L’unico dispiacere stanotte è che negli anni futuri ci saranno tante fantastiche canzoni, che non sarà nostro privilegio trasmettere ma, credete a me, saranno comunque scritte. E saranno comunque cantate. E saranno comunque la meraviglia del mondo!