Pelè, 1958

PELE

Ero piccolino quando papà mi snocciolava la formazione del Brasile del 1958: Gilmar, Djalma Santos, Nilton SantosZito, Bellini, OrlandoGarrincha, Didi, Vavà, Pelè, Zagallo. Me la sono imparata perfino io nel corso degli anni, unica formazione che ricordo a memoria senza esitazioni insieme a quella dell’Ascoli che passò per la prima volta dalla serie C alla B (Masoni Vezzoso Schicchi, Pagani Castoldi Minigutti, Colombini Vivani Bertarelli Gola Campanini).
Solo che io nel 1958 non ero nemmeno un progetto nella testa dei miei genitori, che ancora non si conoscevano.
E’ per questo che sono andato a vedere il film “Pelè“, ieri, con mio figlio. Lo dovevo ad anni e anni di racconti di mio padre: le gambe storte di Djalma Santos, le ubriacanti discese a zig-zag di Garrincha, la potenza di Vavà, la velocità di Zagallo e naturalmente, sopra a tutti, l’infinita classe del diciassettenne Pelè, un fagiolino di 1,70 metri che all’Italia, nel 1970, in finale fece un gol di testa alzandosi un metro da terra che ancora Burnich se lo ricorda.
Il film è straordinario, bellissimo. Non può non piacere a chi ami il calcio, ma anche a chi non piacesse questo sport lascerebbe comunque una scia di emozione, essendo storia di sofferenza, di amore, di impegno, di riscatto.
E quando, nelle scritte finali, si ripercorre la carriera di Pelè successiva a quella magica estate del 1958, il momento più bello è quando appare l’unica cosa che Pelè non è riuscito a fare, cinque gol nello stesso match. Cosa riuscita in carriera a suo padre, giocatore come lui.
Un film che mi ha emozionato come pochi. Lo danno ancora al Città delle Stelle, io l’ho visto al Piceno e nella sala c’eravamo solo io e mio figlio di 12 anni, che alla fine della proiezione non ha potuto trattenere un’esclamazione: “Che filmone!”

Amo il calcio

 

Tardelli

Amo il calcio, l’ho sempre amato fin dai tempi della fanciullezza quando papà mi accompagnava tenendomi per mano al Del Duca a vedere l’Ascoli. Erano i tempi eroici della serie C, divenuta poi B e poi ancora, trionfalmente, A.

Ho visto dal vivo, a 30 metri da me intendo, Gullit Van Basten Maradona Zico Paolino Rossi Bruno Conti e il grande Zoff.

Il momento che mi è rimasto calcisticamente più impresso, a parte le due vittorie mondiali che ricordo e il gol di Giorgi all’Ancona, il 2-0 dell’Ascoli alla Juve campione del mondo, nel 1982, con due gol di Novellino.

Amo il calcio per quello che si fa in campo e non per ciò che si vede in TV, perché a quelli che hanno la fortuna di vedere la serie A dal vivo non la si può andare a raccontare. Vado allo stadio perché non mi piace rivedere la stessa immagine 20 volte per sapere se la gamba del difensore ha toccato il piede dell’attaccante o se quest’ultimo ha bluffato. Mi piace invece incazzarmi in diretta perché la mia squadra ha subito un’ingiustizia, al prezzo magari di dovermi ricredere di fronte alle immagini televisive.

Del calcio odio i maneggioni come Moggi, Preziosi, Galliani, Lotito, odio gli arbitri supini che con metodo scientifico fanno andare una partita a senso unico a favore della grande squadra.

Amo il fatto che ancora ci sono squadre Davide e squadre Golia, che talvolta Davide atterra Golia. Amo la storia del Chievo e del Castel di Sangro, come sono riuscite due squadrette a farsi largo tra i blasonati club della B e della A. Amo gli exploit come quello del Camerun e della Nigeria ai mondiali, quello del Frosinone che fino a ieri giocava in seconda categoria.

Amo le partite giocate nella melma, col campo al limite dell’impraticabilità. Ricordo un vecchio Ascoli-Milan, in mezzo a una bomba di pioggia: partita da sciabola e non per fiorettisti che infatti – regolarmente – alla fine della partita dissero che quelle non erano condizioni “accettabili”. Se sei bravo, mandò a dire il nostro allenatore, sai giocare anche sulla luna. E poi le molecole d’acqua non è che si scansassero per la nostra squadra.

Amo questo del calcio, amo anche commentare all’infinito il tacco dell’attaccante, il gol di Meco Agostini al Pisa in rovesciata, la mano di Dio che aiutò Maradona contro l’Inghilterra prima che egli, per sovrammercato, segnasse la doppietta con il più bel gol della storia del mondo.

Amo l’esultanza di Tardelli dell’82 e quella di Grosso nel 2006. Anzi, amo osservare e studiare l’esultanza di ogni giocatore: Toni con la sua mossa da tecnico audio, del Piero con la linguetta fuori a braccia larghe, Pruzzo che partiva come un siluro verso l’irrinunciabile abbraccio della Curva Sud dell’Olimpico, Falcao con il suo saltello a un metro da terra sul posto.

Amo le immagini eroiche del Grande Torino perito a Superga, una storia che se fosse stata scritta da Omero 3.000 anni fa non avrebbe sfigurato a fianco dell’Iliade.

Amo tremendamente il fatto che leggendo questo mio intervento qualcuno abbia una voglia insopprimibile di dirmi che non ho ragione su questo o su quello. I milanisti ancora incavolati per la partita del 2006, i laziali per i quali Lotito è un uomo corretto, eccetera. Amo il fatto che il calcio faccia parlare nei bar, non mi piace più di tanto parlarne in prima persona, ma mi divertono i commenti che fanno i miei concittadini in dialetto, le definizioni che danno di questo o quel calciatore, le offese che riservano agli arbitri. Semplicemente un pezzo di cultura della mia città.

Amo – nel contempo ridendone – le critiche che al calcio fanno le donne, così facilmente smontabili. I 22 cretini in mutande, un classico. Ma tanto io un giorno di questi quando stai attaccato alla televisione me ne esco e ti vado a confezionare un ottimo paio di corna, e altre amenità simili. Bellissima la frase detta da una mia ex a suo tempo: tu odoreresti pure una scoreggia di Baggio.

Beh, di Dino Baggio magari no. Ma di Roberto…

Il mio amico toscano

Io e Roberto Strulli

Oggi, 50 anni fa, a San Valentino moriva il giovane portiere dell’Ascoli Roberto Strulli. Un fortuito incidente di gioco la causa della morte, in un Sambenedettese-Ascoli drammatico che da allora ha costituito una sorta di spartiacque nella storia tra le due tifoserie e tra le stesse città.

Ho un rapporto particolare con questa tragedia, che pur essendo avvenuta in un giorno che non potrei mai ricordare (avevo appena un anno) sento mia per un motivo preciso.

La mia mamma lavorava al posto pubblico della SIP (era la Telecom degli anni ’60), che era una sorta di salone con delle cabine telefoniche ove chi non aveva il telefono poteva andare a chiamare i suoi cari. Era un posto ove si incontravano prevalentemente i militari, e specificatamente gli allievi ufficiali della caserma Clementi, i viaggiatori, i rappresentanti e, appunto, i giocatori dell’Ascoli che chiamavano le famiglie lontane. Mia madre al tempo ne conobbe diversi, tra i quali anche Roberto Strulli, il portiere. Me lo ha sempre descritto come un ragazzo molto simpatico, educato e gentile.

Qualche volta succedeva che io fossi presente lì al posto pubblico, magari perché mia madre passava a trovare le colleghe con me, e ogni volta Roberto si avvicinava alla carrozzina per guardarmi e dopo aver fatto i complimenti a mia madre, felice come una pasqua diceva: “Che bel bambino, lo sa che anche mia moglie mi sta per dare un figlio? Chissà se sarà un maschietto come questo”.

Anche se fortuitamente ci incontrava per strada Strulli si fermava sempre a guardarmi, vedendo forse in me il figlio che desiderava moltissimo e che avrebbe completato la sua felicità di atleta in carriera e di marito felice.

Il sogno si interruppe poco dopo, appena entrati nel 1965. Mia madre seppe, come tutti, della tragedia, e nel corso degli anni mi ha sempre trasmesso sottotraccia il suo cruccio particolare, personalissimo, condiviso con me. E io ho sempre sentito nel corso degli anni la presenza di questo atleta che non ho mai ricordato, come immanente nella mia vita, una specie di angelo custode. Sembrerà assurdo, ma è come se io avessi saputo in un angolino del mio cervello di avere sempre quello sguardo su di me, nonostante dentro casa, principalmente per pudore ma anche forse un po’ per una sorta di dolore sordo, non si sia mai troppo parlato della cosa.

La memoria di Roberto Strulli è stata recentemente rispolverata dalla città di Ascoli Piceno e da una tifoseria che, pur essendo troppo giovane per ricordarlo, ne ha conosciuto la storia e la fine che ha qualcosa di eroico e di struggente insieme. Oggigiorno si esaltano sportivi per molto meno, ma io nel mio pantheon bianconero, insieme a Renato Walter Junior e gli altri, ho da sempre anche Roberto, una specie di zio lontano, un amico dolce e sfortunato.

Alla signora Luana e a Roberto Jr., che non ebbe modo di rallegrare con il suo arrivo la vita di suo padre, invio oggi, a 50 anni da quel grande dolore, il mio pensiero e tutto l’affetto del bambino che dalla carrozzina vide più volte chinarsi su di lui un bel ragazzo toscano dallo sguardo allegro.