Il tifoso occasionale (coming out)

Ho constatato che nella mia città l’accusa di TIFOSO OCCASIONALE ha sostituito, negli ultimi tempi, ogni altro tipo di offesa fortemente infamante. Sembra che dare del tifoso occasionale alle persone sia diventato il nuovo must per chi ha in animo di demolire il conversante che gli è di fronte, sminuendone le potenzialità tifatorie e l’amore per i colori bianconeri (del bianconero giusto, s’intende).

Nota per i non iniziati: il tifoso occasionale è quello che non ha l’abbonamento allo stadio, oppure non va in trasferta, o che se ne fa poche, e soprattutto è quello al quale può capitare di indulgere alle simpatie anche per altri team (solitamente veleggianti in altre serie). Per esempio ha simpatie pure per l’Inter, la Juve, la Roma, il Napoli quando non addirittura il Barcellona o il Manchester United.

Io sono nato in Ascoli e porto l’Ascoli, ma pure a me capita di simpatizzare per questo o quell’altro team a seconda dei momenti o delle occasioni, chiaramente sempre conservando una idiosincrasia di nascita per i gobbi e continuando a portare solo l’Ascoli giacché il calcio minore non lo seguo con troppo interesse.

Tempo addietro – disgrazia nelle disgrazie – l’accusa di occasionalita’ fu rivolta perfino a me, chiaramente da un sedicente tifoso professionale, in occasione di una mia esortazione a sorridere ed essere ottimisti invece di lamentarsi sempre e stare incarogniti su tutto.

Apriti cielo, e inghiotti il becero tifoso occasionale!

Il sanguigno conversatore esordì dicendo: “Voi che tutto l’anno portate la Juve nen me petete venì a dì…” ma già avevo staccato la spina delle orecchie giacché non ne valeva la pena. Inutile spiegargli che seguo l’Ascoli da Del Duca-Samb del 1969/70 (la prima mia partita in assoluto: gol su rigore del capitano Abramo Pagani con fucilata a mezz’aria alla destra del portiere), ricordo la doppietta di Quadri la palombella di Nicolini il gol dal fondo di Casagrande e pure la capocciata di Pircher che nen s’era accuorte ch’avie’ segnate all’Inter.

Al concetto di tifoso occasionale fa da contraltare, com’è noto, quello di Ultras, che per certa letteratura è depositario di tutte le qualità che mancano all’occasionale: prima fra tutte la mentalità ultras, concetto non banale che ha una sua etica e una sua onorabilità e che, sebbene non abbia mai praticato, istintivamente rispetto. Mi capita di riconoscermi più nella sportività, che a volte ti fa applaudire la squadra avversaria che gioca bene, compresa quella nemica con l’unica inevitabile eccezione dell’inapplaudibile team del pan cu’ l’olio.

E quindi la concatenazione di eventi che sembro’ ridurmi al rango di tifoso occasionale – a me che vado al Cino e Lillo da 52 anni avendone pochi di più – un po’ mi fece sorridere un po’ mi indispose.

Ma nen è che ce so’ pierse lu suonne sa’.

Il grande Fonzi’

Un post scritto su un gruppo Facebook da un ascolano che risiede all’estero mi ha riportato alla mente uno dei personaggi ascolani che io abbia stimato di più. Mi piace ricordarlo qui, in pubblico, ed è l’amico Fonzì. Sì, amico nonostante appartenessimo a generazioni diverse. Era amico di mio padre, così come di tanti altri padri dei ragazzi con cui andavo nel suo locale (tipica la frase che rivolgeva sempre al mio amico Pietro quando quest’ultimo faceva il matto: “Attente Girardi che i’ cunosche pàrtete!“).

Famosissimo perché da lui si mangiava con 12.000 lire. Finì pure sul giornale come locanda a più buon mercato del centro Italia. E poi non è che ti dava due boccolotti, con 12.000 lire ti dava i tortellini, la cotoletta, le patatine e ti passava pure da bere. Un mito assoluto della nostra gioventù, sempre allegro, sempre disponibile, un ascolano verace che parlava in dialetto e ci faceva pisciare sotto per le risate.

Con i Nerkias (al tempo eravamo compagni di scuola) siamo andati decine di volte a mangiare da lui, e sulle tovaglie di carta scrivevamo i testi delle canzoni che ci uscivano a cena, molte delle quali poi sono finite nei nostri album. E se alla fine della cena ciavevi 10.000 lire, faceva una faccia noncurante e ti faceva lo sconto (“Vabbè pure 10.000 dài, nn’ié magnate cósa…“, fingeva), pure se papà lavorava all’Enel e, cazzarola, 2.000 lire in più me li petié pure dà (ma io magari ci avevo comprato un disco). Credo di dovergli ancora una cifra non inferiore alle 50.000 lire.

Poco accondiscendente nei confronti di chi gli parlava entusiasticamente dell’affascinante figliola Cinzia (gli cambiava lo sguardo), era invece fraterno con chiunque entrasse nel suo locale, dove non esisteva il LEI ed eri sempre accolto con un sorriso: “Ciao Piccioni, come sta pàrtete?“). E a chiunque sia entrato direttamente in cucina, con lo sguardo basso, nel corso degli anni non è mai stato negato un pasto auffa (tipica la frase di Fonzì: “Pe’ magnà ce vo’ li forchette, no li solde“).

Grande personaggio, ma grande davvero, un personaggio del popolo che non ha governato la città né è appartenuto a gruppi politici o sociali rilevanti, ma che (forse proprio per questo) nella sua maniera colorita e folcloristica è stato uno dei più grandi esempi di signore che io conosca: il signore vero, quello dell’animo.

Il lamento del fabbro nudo

50lire

Chi non ricorda le vecchie 50 lire? Ci usciva, nei nostri anni ’70, un ghiacciolo semplice, mai un Arcobaleno né, ancor peggio, quelli “buoni”, ovvero ricoperti di cioccolato, oppure i Cuccioloni col biscotto. Quelli costavano 100, perfino 200 lire.

Ti ritrovavi queste 50 lire per effetto di un favoretto che avevi fatto a tuo padre (aiutarlo a infiascare il vino, a lavare la macchina, a annaffiare l’orto) e correvi felice verso il baretto per gustarti il gelatino all’arancio nella canicola estiva.

Capitava, a volte, di incantarsi ad osservare la figura che era ritrattata nel retro della moneta: un misto di forza ed eleganza rappresentata da un giovane fabbro, nudo, che batteva sull’incudine con una mazza. Spesso – chi non lo ha fatto? – ti veniva da pensare che, nelle sue condizioni, era n’attimo andare a finire sul piano dell’incudine con gli accessori pendenti, e allora sai che gniaulìi!

L’atteggiamento di certe persone che nella vita preferiscono guardare, in un bicchiere pieno all’80%, il 20% vuoto mi fa pensare a quel giovane fabbro che decide motu proprio di mancare il bersaglio e squagliarsi una palla sull’incudine. E’ successo ad Ascoli, recentemente, anzi direi che nel calcio – e quindi anche ad Ascoli – succede spesso. Spiegazione dell’antefatto, per i non ascolani o i non appassionati di calcio: i bianconeri in evidente crisi di risultati riportano 3 punti di platino da Padova, battendo l’affermato Cittadella in corsa per il primato della B. E che ti fanno i lagnosi piceni: cominciano il lamento del fabbro nudo.

E che culo, e hanno ammonito solo loro, e l’arbitro facié a parte che nu’, e s’è nventate l’espulsione, e Perez nen è de categoria, e Giorgi è rutte, e Aglietti nen è tutte quelle che se decié, e Bellini caccia ssi solde, e se a gennaio nen chempreme na limana ce n’arieme dritte in Lega Pro, e la tribuna chisà quant’è pronta, e era megghie che invece del centro sportivo ce chemprava Marilungo, e senza ferrovia Ascoli-Roma è nu brutte campà, e in America tante è Trump e tante è la Clinton, e che c’è mannate affà la sonda Schiaparelli su Marte.

A questo punto la palla è spappolata, le ciuette-inside felici e il mondo adeguatamente grigio. E questo – beninteso – succede spessissimo dalle nostre parti.

Da quanto sopra un semplice assunto. Fate vobis per l’atteggiamento da adottare con i fabbri svestiti, ma io adotto il mio: indifferenza totale e senza quartiere. Non permetto agli altri di sporcare il mio cielo. Verrà il tempo per reincazzarsi per un risultato bugiardo, una prestazione meno che dignitosa, una caterva di gol mancati. Nel frattempo, però, preferisco vivere. Vivere sereno mentre il fabbro gestisce torvo il suo dolore, consolato solo dallo spargere malessere, dal provocare flames, dal rovinare l’attimo, dal gestire l’umore altrui.

Il cavaliere felice

 
Lionetti 1

Se nella Quintana d’agosto 2015 ci aveva colpito l’applauso tributato da tutto lo Squarcia a Emanuele Capriotti dopo la sua ultima tornata quintanara, quest’anno il momento più emozionante è stato sicuramente l’abbraccio tra il piccolo Nicholas Lionetti della Piazzarola e la madre, qui documentato da una bellissima foto rubata a Luigi Ianni.

Così come Alessandro Florenzi con la nonna, anche Nicholas – ricordiamolo sempre, 17 anni! – zompa la ramata e va a incassare un quintale di bacetti dalla mamma, felice come una pasqua.

Ma direi che Nicholas ha proprio corso da cavaliere felice: l’ultima parte della terza tornata, dopo l’ultimo curvone, era proprio raggiante, aveva le ali ai piedi e un’espressione sul viso da folletto terribile. Anche qui, mi soccorre la bellissima foto dell’amico Davide Valenti, che ben ha saputo cogliere l’attimo.

Lionetti 2

E non è un caso che Nicholas sia stato l’unico cavaliere del 2016 ad alzare la lancia dopo aver finito l’ultima tornata: lui a quel punto la sua personale Quintana l’aveva già vinta correndo alla pari con i grandi, e tutto lo stadio infatti lo ha applaudito con simpatia e ammirazione.

Certo altro si potrebbe dire di una giostra un po’ sottotono e di accadimenti poco edificanti, ma perché? Alla fine ciò che ricorderemo è la scena di tutta la tribuna in piedi ad applaudire l’abbraccio stritolante di una signora bionda a lu frechì suò.

Il sor Emiddio e la pensione

Cartoon

 

Il sor Emiddio, giunto all`età pensionabile, va a Campo Parignano all’INPS per fare domanda per la pensione.

La signora allo sportello gli chiede la carta d`identità per verificare la sua età. Lu sor Emiddio guarda in tasca e si accorge di aver dimenticato a casa il documento:

“Ma porca… mo’ hai da reì llà a casa e può arevenì n’addra vodda…”

Ma la donna gli dice: “Si sbottoni la camicia per favore”. Così il sor Emiddio apre la camicia rivelando il suo torace ricoperto di peli bianchi.

E la donna: “Tranquillo, questo per me è sufficiente per provare che lei ha l`età giusta per la pensione”, e procede a redigere la documentazione per la pensione di anzianità.

Appena tornato a casa Middio racconta divertito la sua esperienza alla moglie Marietta, che alla fine del racconto sbotta:

“Te devive sbottonà pure li cazze, cuscì te dava pure la penciò d’invalidità”

 

 

Toteri e torturi


Sono particolarmente belle le definizioni che l’ascolano utilizza per definire le persone dall’appeal non particolarmente sveglio. Persone che in italiano potremmo definire tonte, almeno all’apparenza. Ecco, quando uno ha un po’ l’aspetto, la faccia, l’andatura da tonto l’ascolano si sbizzarrisce in definizioni varie, ognuna delle quali reca in sé peculiarità precise che la fanno preferire, nel caso concreto, ad altre.

Prendiamo la definizione principe che l’ascolano dà di questa figura: lu tòtera. Per chi non lo sapesse, lu totera è la parte interna della panocchia di granturco, ovvero ciò che rimane dopo aver snocciolato i preziosi chicchi gialli. Ebbene, cosa se ne dovrebbe fare uno del totera? Decisamente molto poco, ed è questo il motivo per cui una persona poco sveglia viene definita tale.

Totera è lo stimato professionista – ingegnere avvocato medico – al quale affideresti la tua famiglia con cieca fiducia tanta è l’affidabilità sociale che promana dalla sua figura, ma che magari cammina come un automa (ad esempio portando avanti gamba e braccio insieme dallo stesso lato, avete visto mai?), oppure totalmente incapace di capire una battuta che non abbia concatenamento a=ape, u=uva. Insomma: tutti lo idolatrano, è rispettato e ammirato, ha preso tutti 30 all’università, porta sempre la cravatta, ma tu dentro di te lo sai che è solo ‘nu totera.

E poi, sì, magari ci sono toteri anche meno abbienti o posizionati, ma hanno inferenza statistica minore: il bisogno come si sa accelera le sinapsi e stimola l’immaginazione.

Diverso è il concetto de lu tertùre. Ah, qui no: ragazzi se uno ti dà del torturo la fa grossa. Lu terture, fondamentalmente, è il bastone. Nel contado è specificatamente il bastone ficcato nel suolo vicino alla piantina giovane che viene legata ad esso per poter crescere dritta.

Ora, non che si possa dire che lu terture in tal caso non abbia una sua utilità pratica, ma c’è da ammettere che la sua funzione si esplica nella più assoluta nullafacenza. E poi viene buttato via, oppure utilizzato per l’altra funzione cui è solitamente deputato: le percosse. Infatti in ascolano si dice “Mo’ te denghe ‘na terterata”, cioè una botta di torturo. Ravanando tra i dizionari d’italiano emerge che è ben reso in lingua dal lemma tortóre che definisce il bastone che veniva usato per torcere le funi nella lavorazione della canapa.

Ora, definire una persona tertùre per un ascolano significa fargli torto ben peggiore che dargli del tòtera. Lu terture è il tonto trapassato remoto, quello che abbina postura, espressione facciale, difficoltà di parola, vestiario assolutamente inadeguati ad un sereno confronto sociale. Lu terture non ti capisce pure se usi l’abbacedario, ha uno spessore umano di un micron. Abbina la risicata elasticità mentale ad una scarsa sincronia nei movimenti, di solito esibisce un corpo ingombrante e inadeguato che può essere vestito pure da Valentino o da Armani, ma purtroppo come si dice ad Ascoli “gness’accosta cósa” (nulla gli cade bene addosso).

Il tratto definitivo della disistima che questo personaggio raccoglie sta nell’utilizzo nei suoi confronti della terza persona singolare in luogo della seconda, ancorché in sua presenza: se infatti ci si rivolge al tonto con altre invettive di stesso stampo in seconda persona (“Oh, ma ié proprie ‘nu tòtera!”), invariabilmente nei suoi confronti si passa ad una impersonale terza persona, come a non volergli riconoscere manco la dignità di ascoltatore coinvolto: “Ma tu guarda STU terture!”, abbinando solitamente alla frase una mano di taglio con palmo verso l’alto.

Ecco, se uno mi dà del tòtera me lo prendo, seppure a malincuore. Cerco di non farci caso, somatizzo ma resisto. Ma se uno mi dice tertùre m’arregno fino alla mattina dopo.

Amo il calcio

 

Tardelli

Amo il calcio, l’ho sempre amato fin dai tempi della fanciullezza quando papà mi accompagnava tenendomi per mano al Del Duca a vedere l’Ascoli. Erano i tempi eroici della serie C, divenuta poi B e poi ancora, trionfalmente, A.

Ho visto dal vivo, a 30 metri da me intendo, Gullit Van Basten Maradona Zico Paolino Rossi Bruno Conti e il grande Zoff.

Il momento che mi è rimasto calcisticamente più impresso, a parte le due vittorie mondiali che ricordo e il gol di Giorgi all’Ancona, il 2-0 dell’Ascoli alla Juve campione del mondo, nel 1982, con due gol di Novellino.

Amo il calcio per quello che si fa in campo e non per ciò che si vede in TV, perché a quelli che hanno la fortuna di vedere la serie A dal vivo non la si può andare a raccontare. Vado allo stadio perché non mi piace rivedere la stessa immagine 20 volte per sapere se la gamba del difensore ha toccato il piede dell’attaccante o se quest’ultimo ha bluffato. Mi piace invece incazzarmi in diretta perché la mia squadra ha subito un’ingiustizia, al prezzo magari di dovermi ricredere di fronte alle immagini televisive.

Del calcio odio i maneggioni come Moggi, Preziosi, Galliani, Lotito, odio gli arbitri supini che con metodo scientifico fanno andare una partita a senso unico a favore della grande squadra.

Amo il fatto che ancora ci sono squadre Davide e squadre Golia, che talvolta Davide atterra Golia. Amo la storia del Chievo e del Castel di Sangro, come sono riuscite due squadrette a farsi largo tra i blasonati club della B e della A. Amo gli exploit come quello del Camerun e della Nigeria ai mondiali, quello del Frosinone che fino a ieri giocava in seconda categoria.

Amo le partite giocate nella melma, col campo al limite dell’impraticabilità. Ricordo un vecchio Ascoli-Milan, in mezzo a una bomba di pioggia: partita da sciabola e non per fiorettisti che infatti – regolarmente – alla fine della partita dissero che quelle non erano condizioni “accettabili”. Se sei bravo, mandò a dire il nostro allenatore, sai giocare anche sulla luna. E poi le molecole d’acqua non è che si scansassero per la nostra squadra.

Amo questo del calcio, amo anche commentare all’infinito il tacco dell’attaccante, il gol di Meco Agostini al Pisa in rovesciata, la mano di Dio che aiutò Maradona contro l’Inghilterra prima che egli, per sovrammercato, segnasse la doppietta con il più bel gol della storia del mondo.

Amo l’esultanza di Tardelli dell’82 e quella di Grosso nel 2006. Anzi, amo osservare e studiare l’esultanza di ogni giocatore: Toni con la sua mossa da tecnico audio, del Piero con la linguetta fuori a braccia larghe, Pruzzo che partiva come un siluro verso l’irrinunciabile abbraccio della Curva Sud dell’Olimpico, Falcao con il suo saltello a un metro da terra sul posto.

Amo le immagini eroiche del Grande Torino perito a Superga, una storia che se fosse stata scritta da Omero 3.000 anni fa non avrebbe sfigurato a fianco dell’Iliade.

Amo tremendamente il fatto che leggendo questo mio intervento qualcuno abbia una voglia insopprimibile di dirmi che non ho ragione su questo o su quello. I milanisti ancora incavolati per la partita del 2006, i laziali per i quali Lotito è un uomo corretto, eccetera. Amo il fatto che il calcio faccia parlare nei bar, non mi piace più di tanto parlarne in prima persona, ma mi divertono i commenti che fanno i miei concittadini in dialetto, le definizioni che danno di questo o quel calciatore, le offese che riservano agli arbitri. Semplicemente un pezzo di cultura della mia città.

Amo – nel contempo ridendone – le critiche che al calcio fanno le donne, così facilmente smontabili. I 22 cretini in mutande, un classico. Ma tanto io un giorno di questi quando stai attaccato alla televisione me ne esco e ti vado a confezionare un ottimo paio di corna, e altre amenità simili. Bellissima la frase detta da una mia ex a suo tempo: tu odoreresti pure una scoreggia di Baggio.

Beh, di Dino Baggio magari no. Ma di Roberto…

La freciuta

Freciuta
Tempo fa mi sono trovato a dover spiegare a un non ascolano che cosa significhi freciuta. Meno facile di quanto si possa pensare.

Il termine freciuta deriva dalla tendenza di alcune persone a esprimersi provocatoriamente oppure rispondere piccate (entrambi tipici atteggiamenti freciuti), allargando leggermente le narici (dette in dialetto froce, in italiano froge), un po’ come quando uno è arrabbiato, avete presente? Anche nei fumetti ingrossano le froge dei personaggi quando questi devono apparire infuriati. Così, una freciuta sta spesso inquieta o risponde maleducatamente o, anche, provoca deliberatamente.

Tipica freciuta è la nuora che risponde piccata, anche villanamente a volte, alla suocera; la scolaretta che – vistasi colta in castagna dalla professoressa – risponde a tono seppur non abbia un briciolo di ragione; la fidanzata che – a fronte di rifiuti di regalìe o altro – minaccia ritorsioni sessuali sull’amichetto.

Freciuta era mia figlia Sara quando a tre anni rispondeva “No no e no” alle mie sommesse richieste di bacetti. E cosa volete che sia questa se non villanìa bella e buona?

La freciuta solitamente si presenta con le mani sui fianchi e spesso, dopo aver somministrato le sue provocazioni, si allontana che lu cule pen’ensù (col sedere dritto): possiamo quindi ritenere complementari l’ingigantimento degli orifizi rinitici e la modificata postura lombosacrale. E con questo l’iconografia della freciuta è servita.

L’analisi del profilo psicologico ci restituisce la freciuta non solo come una “bambina impertinente” (nel qual caso si utilizza meglio il termine frecetélla), ma anche come una donna fatta che, a ragione del suo caratteraccio, si presenta in società come donna intrattabile e risponditrice.

Adesso chiudete gli occhi e contate: quante freciute vi sono venute in mente scorrendo queste poche righe?

Lu rempezzuse

Perma puffo
Mi è stato recentemente chiesto il significato della parola rempezzùse. Certo, per ogni vero ascolano il significato è chiaro e definito, ma spiegarlo ad uno che non conosce il nostro dialetto può risultare – come in effetti è risultato – piuttosto complicato.

Partendo dall’onomatopea, lu “rempizze” evoca la posizione anatomica del sedere all’infuori di quello che ha patito, o sostiene di averlo fatto, un’offesa o un comportamento irriguardoso. Avete presente quello che ti si gira col sedere all’insù, tutto sulle sue, e ti parla (se ti parla) senza guardarti in faccia?

La traduzione più accreditata di “rempezzuse” potrebbe essere quindi “permaloso”, e la questione sarebbe finita lì.

Se non fosse che esiste un divario notevole tra le due situazioni: il permaloso è persona estremamente sensibile alle battute, alle velate critiche, ai giudizi, è una persona difficile e il più delle volte obiettivamente faticosa da trattare. Ribatte punto su punto per pareggiare i conti, e fondamentalmente – perché di questo si tratta – non ha fatto ancora pace con sé stesso. Inutile dire che evito i permalosi finché posso, mi peggiorano la vita.

Ma il permaloso, pur rovinato dal difettone, può essere persona intelligente e conservare un profilo di bontà, simpatia e stimabilità.

Lu rempezzuse è di più. Unisce alla permalosità anche un altro elemento, quello della fatuità del motivo. Il rimpizzato di solito si offende per cazzate di bassissimo cabotaggio, torti minimali che per il 95 % della popolazione mondiale non significano nulla: non l’hai salutato per primo, ti sei distratto un attimo mentre ti raccontava prolissamente un fatto a lui accaduto, non lo hai invitato a qualche evento che hai organizzato (dove lui magari non c’entrava niente).

E cova vendetta, il più delle volte. Si fa negare, sparisce dalla tua vita. Per poi ricomparire dopo mesi come niente fosse, magari perché gli serve qualcosa, certo che lo riaccoglierai, non capendo che non gli rendi la pariglia perché non sei come lui e non perché hai bisogno di lui.

Il girone de li rempezzuse nel mondo dantesco avrebbe come contrappasso una pena tremenda: avere una paresi sul viso che ti costringe a sorridere mentre 1.000 persone ti offendono brutalmente.

Ah, che sarebbe per un paio di persone che conosco.

Il sit-in di Carletto


Carlo

Carlo Palatroni era stato un grande batterista negli anni ’70, uno di quelli che avevano il ritmo nel sangue e gestivano – ai tempi usava – batterie da 15 fusti in su, con piatti e campanacci a profusione. Fu anche compositore e cantante più che discreto, con una voce roca e profonda che non ti aspettavi da un involucro così ridotto. Due baffoni da messicano e un carattere guasconesco mai venuto meno completavano un quadro a suo modo interessante.

Una volta, in mezzo agli anni ’90, mi chiamano via radio da Corso Vittorio Emanuele: “Tenente, dovrebbe venire subito che qui…” “Che lì?…” faccio io. “Eh niente, deve venire”. Salto in auto e arrivo sul posto. Fila immane di auto che arrivavano a Porta Maggiore. In mezzo al viale, sdraiato in terra perpendicolarmente al senso di marcia, c’era Carletto. Faceva una croce con la linea di mezzeria, impossibile passare per un mezzo a quattro ruote.

Lì per lì tento di reprimere un moto di riso, ma era impossibile vista la scena: Carletto con loden e pantaloni a zampa d’elefante disteso con aria drammatica, tutt’intorno una folla di astanti che non sapeva come risolvere la cosa e tentava – inascoltata – di convincere con le buone il baffuto.

Gli vado sopra e lui come vede la divisa parte con la rivendicazione: “Questo è un sit-in di protesta perché qua tutti se ne fregano di me, e io non posso andare avanti”.

Mi accuccio al suo fianco e gli dico piano in maniera che mi senta solo lui: “Eddài Carlo, un artista come te. Manco a farti vedere così!”.

Non gli dissi altro, ma non potei non notare che la parola “artista” aveva sortito un effetto taumaturgico: meditò qualche altro secondo poi si alzò prendendomi sottobraccio.

Arrivati al marciapiede i colleghi stavano già ripristinando la situazione del traffico, mentre io cercavo di sottrarre Carlo dalla curiosità popolare. Ristabilita la normalità stavo rimontando in macchina quando lui da una decina di metri mi fa: “Ehi amico, puoi venire un attimo?”. Gli occhi erano tutti su di me. Mi avvicino, lo porto in disparte per non alimentare la curiosità delle persone rimaste lì.

Mi guarda un attimo, sorridendo, e mi fa: “Non è che ciai diecimila lire?”.

Le ho sempre considerate – e oggi più che mai – le diecimila lire più ben spese degli anni ’90.