Il sor Emiddio e la pensione

Cartoon

 

Il sor Emiddio, giunto all`età pensionabile, va a Campo Parignano all’INPS per fare domanda per la pensione.

La signora allo sportello gli chiede la carta d`identità per verificare la sua età. Lu sor Emiddio guarda in tasca e si accorge di aver dimenticato a casa il documento:

“Ma porca… mo’ hai da reì llà a casa e può arevenì n’addra vodda…”

Ma la donna gli dice: “Si sbottoni la camicia per favore”. Così il sor Emiddio apre la camicia rivelando il suo torace ricoperto di peli bianchi.

E la donna: “Tranquillo, questo per me è sufficiente per provare che lei ha l`età giusta per la pensione”, e procede a redigere la documentazione per la pensione di anzianità.

Appena tornato a casa Middio racconta divertito la sua esperienza alla moglie Marietta, che alla fine del racconto sbotta:

“Te devive sbottonà pure li cazze, cuscì te dava pure la penciò d’invalidità”

 

 

Toteri e torturi


Sono particolarmente belle le definizioni che l’ascolano utilizza per definire le persone dall’appeal non particolarmente sveglio. Persone che in italiano potremmo definire tonte, almeno all’apparenza. Ecco, quando uno ha un po’ l’aspetto, la faccia, l’andatura da tonto l’ascolano si sbizzarrisce in definizioni varie, ognuna delle quali reca in sé peculiarità precise che la fanno preferire, nel caso concreto, ad altre.

Prendiamo la definizione principe che l’ascolano dà di questa figura: lu tòtera. Per chi non lo sapesse, lu totera è la parte interna della panocchia di granturco, ovvero ciò che rimane dopo aver snocciolato i preziosi chicchi gialli. Ebbene, cosa se ne dovrebbe fare uno del totera? Decisamente molto poco, ed è questo il motivo per cui una persona poco sveglia viene definita tale.

Totera è lo stimato professionista – ingegnere avvocato medico – al quale affideresti la tua famiglia con cieca fiducia tanta è l’affidabilità sociale che promana dalla sua figura, ma che magari cammina come un automa (ad esempio portando avanti gamba e braccio insieme dallo stesso lato, avete visto mai?), oppure totalmente incapace di capire una battuta che non abbia concatenamento a=ape, u=uva. Insomma: tutti lo idolatrano, è rispettato e ammirato, ha preso tutti 30 all’università, porta sempre la cravatta, ma tu dentro di te lo sai che è solo ‘nu totera.

E poi, sì, magari ci sono toteri anche meno abbienti o posizionati, ma hanno inferenza statistica minore: il bisogno come si sa accelera le sinapsi e stimola l’immaginazione.

Diverso è il concetto de lu tertùre. Ah, qui no: ragazzi se uno ti dà del torturo la fa grossa. Lu terture, fondamentalmente, è il bastone. Nel contado è specificatamente il bastone ficcato nel suolo vicino alla piantina giovane che viene legata ad esso per poter crescere dritta.

Ora, non che si possa dire che lu terture in tal caso non abbia una sua utilità pratica, ma c’è da ammettere che la sua funzione si esplica nella più assoluta nullafacenza. E poi viene buttato via, oppure utilizzato per l’altra funzione cui è solitamente deputato: le percosse. Infatti in ascolano si dice “Mo’ te denghe ‘na terterata”, cioè una botta di torturo. Ravanando tra i dizionari d’italiano emerge che è ben reso in lingua dal lemma tortóre che definisce il bastone che veniva usato per torcere le funi nella lavorazione della canapa.

Ora, definire una persona tertùre per un ascolano significa fargli torto ben peggiore che dargli del tòtera. Lu terture è il tonto trapassato remoto, quello che abbina postura, espressione facciale, difficoltà di parola, vestiario assolutamente inadeguati ad un sereno confronto sociale. Lu terture non ti capisce pure se usi l’abbacedario, ha uno spessore umano di un micron. Abbina la risicata elasticità mentale ad una scarsa sincronia nei movimenti, di solito esibisce un corpo ingombrante e inadeguato che può essere vestito pure da Valentino o da Armani, ma purtroppo come si dice ad Ascoli “gness’accosta cósa” (nulla gli cade bene addosso).

Il tratto definitivo della disistima che questo personaggio raccoglie sta nell’utilizzo nei suoi confronti della terza persona singolare in luogo della seconda, ancorché in sua presenza: se infatti ci si rivolge al tonto con altre invettive di stesso stampo in seconda persona (“Oh, ma ié proprie ‘nu tòtera!”), invariabilmente nei suoi confronti si passa ad una impersonale terza persona, come a non volergli riconoscere manco la dignità di ascoltatore coinvolto: “Ma tu guarda STU terture!”, abbinando solitamente alla frase una mano di taglio con palmo verso l’alto.

Ecco, se uno mi dà del tòtera me lo prendo, seppure a malincuore. Cerco di non farci caso, somatizzo ma resisto. Ma se uno mi dice tertùre m’arregno fino alla mattina dopo.

Amo il calcio

 

Tardelli

Amo il calcio, l’ho sempre amato fin dai tempi della fanciullezza quando papà mi accompagnava tenendomi per mano al Del Duca a vedere l’Ascoli. Erano i tempi eroici della serie C, divenuta poi B e poi ancora, trionfalmente, A.

Ho visto dal vivo, a 30 metri da me intendo, Gullit Van Basten Maradona Zico Paolino Rossi Bruno Conti e il grande Zoff.

Il momento che mi è rimasto calcisticamente più impresso, a parte le due vittorie mondiali che ricordo e il gol di Giorgi all’Ancona, il 2-0 dell’Ascoli alla Juve campione del mondo, nel 1982, con due gol di Novellino.

Amo il calcio per quello che si fa in campo e non per ciò che si vede in TV, perché a quelli che hanno la fortuna di vedere la serie A dal vivo non la si può andare a raccontare. Vado allo stadio perché non mi piace rivedere la stessa immagine 20 volte per sapere se la gamba del difensore ha toccato il piede dell’attaccante o se quest’ultimo ha bluffato. Mi piace invece incazzarmi in diretta perché la mia squadra ha subito un’ingiustizia, al prezzo magari di dovermi ricredere di fronte alle immagini televisive.

Del calcio odio i maneggioni come Moggi, Preziosi, Galliani, Lotito, odio gli arbitri supini che con metodo scientifico fanno andare una partita a senso unico a favore della grande squadra.

Amo il fatto che ancora ci sono squadre Davide e squadre Golia, che talvolta Davide atterra Golia. Amo la storia del Chievo e del Castel di Sangro, come sono riuscite due squadrette a farsi largo tra i blasonati club della B e della A. Amo gli exploit come quello del Camerun e della Nigeria ai mondiali, quello del Frosinone che fino a ieri giocava in seconda categoria.

Amo le partite giocate nella melma, col campo al limite dell’impraticabilità. Ricordo un vecchio Ascoli-Milan, in mezzo a una bomba di pioggia: partita da sciabola e non per fiorettisti che infatti – regolarmente – alla fine della partita dissero che quelle non erano condizioni “accettabili”. Se sei bravo, mandò a dire il nostro allenatore, sai giocare anche sulla luna. E poi le molecole d’acqua non è che si scansassero per la nostra squadra.

Amo questo del calcio, amo anche commentare all’infinito il tacco dell’attaccante, il gol di Meco Agostini al Pisa in rovesciata, la mano di Dio che aiutò Maradona contro l’Inghilterra prima che egli, per sovrammercato, segnasse la doppietta con il più bel gol della storia del mondo.

Amo l’esultanza di Tardelli dell’82 e quella di Grosso nel 2006. Anzi, amo osservare e studiare l’esultanza di ogni giocatore: Toni con la sua mossa da tecnico audio, del Piero con la linguetta fuori a braccia larghe, Pruzzo che partiva come un siluro verso l’irrinunciabile abbraccio della Curva Sud dell’Olimpico, Falcao con il suo saltello a un metro da terra sul posto.

Amo le immagini eroiche del Grande Torino perito a Superga, una storia che se fosse stata scritta da Omero 3.000 anni fa non avrebbe sfigurato a fianco dell’Iliade.

Amo tremendamente il fatto che leggendo questo mio intervento qualcuno abbia una voglia insopprimibile di dirmi che non ho ragione su questo o su quello. I milanisti ancora incavolati per la partita del 2006, i laziali per i quali Lotito è un uomo corretto, eccetera. Amo il fatto che il calcio faccia parlare nei bar, non mi piace più di tanto parlarne in prima persona, ma mi divertono i commenti che fanno i miei concittadini in dialetto, le definizioni che danno di questo o quel calciatore, le offese che riservano agli arbitri. Semplicemente un pezzo di cultura della mia città.

Amo – nel contempo ridendone – le critiche che al calcio fanno le donne, così facilmente smontabili. I 22 cretini in mutande, un classico. Ma tanto io un giorno di questi quando stai attaccato alla televisione me ne esco e ti vado a confezionare un ottimo paio di corna, e altre amenità simili. Bellissima la frase detta da una mia ex a suo tempo: tu odoreresti pure una scoreggia di Baggio.

Beh, di Dino Baggio magari no. Ma di Roberto…

La freciuta

Freciuta
Tempo fa mi sono trovato a dover spiegare a un non ascolano che cosa significhi freciuta. Meno facile di quanto si possa pensare.

Il termine freciuta deriva dalla tendenza di alcune persone a esprimersi provocatoriamente oppure rispondere piccate (entrambi tipici atteggiamenti freciuti), allargando leggermente le narici (dette in dialetto froce, in italiano froge), un po’ come quando uno è arrabbiato, avete presente? Anche nei fumetti ingrossano le froge dei personaggi quando questi devono apparire infuriati. Così, una freciuta sta spesso inquieta o risponde maleducatamente o, anche, provoca deliberatamente.

Tipica freciuta è la nuora che risponde piccata, anche villanamente a volte, alla suocera; la scolaretta che – vistasi colta in castagna dalla professoressa – risponde a tono seppur non abbia un briciolo di ragione; la fidanzata che – a fronte di rifiuti di regalìe o altro – minaccia ritorsioni sessuali sull’amichetto.

Freciuta era mia figlia Sara quando a tre anni rispondeva “No no e no” alle mie sommesse richieste di bacetti. E cosa volete che sia questa se non villanìa bella e buona?

La freciuta solitamente si presenta con le mani sui fianchi e spesso, dopo aver somministrato le sue provocazioni, si allontana che lu cule pen’ensù (col sedere dritto): possiamo quindi ritenere complementari l’ingigantimento degli orifizi rinitici e la modificata postura lombosacrale. E con questo l’iconografia della freciuta è servita.

L’analisi del profilo psicologico ci restituisce la freciuta non solo come una “bambina impertinente” (nel qual caso si utilizza meglio il termine frecetélla), ma anche come una donna fatta che, a ragione del suo caratteraccio, si presenta in società come donna intrattabile e risponditrice.

Adesso chiudete gli occhi e contate: quante freciute vi sono venute in mente scorrendo queste poche righe?

Lu rempezzuse

Perma puffo
Mi è stato recentemente chiesto il significato della parola rempezzùse. Certo, per ogni vero ascolano il significato è chiaro e definito, ma spiegarlo ad uno che non conosce il nostro dialetto può risultare – come in effetti è risultato – piuttosto complicato.

Partendo dall’onomatopea, lu “rempizze” evoca la posizione anatomica del sedere all’infuori di quello che ha patito, o sostiene di averlo fatto, un’offesa o un comportamento irriguardoso. Avete presente quello che ti si gira col sedere all’insù, tutto sulle sue, e ti parla (se ti parla) senza guardarti in faccia?

La traduzione più accreditata di “rempezzuse” potrebbe essere quindi “permaloso”, e la questione sarebbe finita lì.

Se non fosse che esiste un divario notevole tra le due situazioni: il permaloso è persona estremamente sensibile alle battute, alle velate critiche, ai giudizi, è una persona difficile e il più delle volte obiettivamente faticosa da trattare. Ribatte punto su punto per pareggiare i conti, e fondamentalmente – perché di questo si tratta – non ha fatto ancora pace con sé stesso. Inutile dire che evito i permalosi finché posso, mi peggiorano la vita.

Ma il permaloso, pur rovinato dal difettone, può essere persona intelligente e conservare un profilo di bontà, simpatia e stimabilità.

Lu rempezzuse è di più. Unisce alla permalosità anche un altro elemento, quello della fatuità del motivo. Il rimpizzato di solito si offende per cazzate di bassissimo cabotaggio, torti minimali che per il 95 % della popolazione mondiale non significano nulla: non l’hai salutato per primo, ti sei distratto un attimo mentre ti raccontava prolissamente un fatto a lui accaduto, non lo hai invitato a qualche evento che hai organizzato (dove lui magari non c’entrava niente).

E cova vendetta, il più delle volte. Si fa negare, sparisce dalla tua vita. Per poi ricomparire dopo mesi come niente fosse, magari perché gli serve qualcosa, certo che lo riaccoglierai, non capendo che non gli rendi la pariglia perché non sei come lui e non perché hai bisogno di lui.

Il girone de li rempezzuse nel mondo dantesco avrebbe come contrappasso una pena tremenda: avere una paresi sul viso che ti costringe a sorridere mentre 1.000 persone ti offendono brutalmente.

Ah, che sarebbe per un paio di persone che conosco.

Il sit-in di Carletto


Carlo

Carlo Palatroni era stato un grande batterista negli anni ’70, uno di quelli che avevano il ritmo nel sangue e gestivano – ai tempi usava – batterie da 15 fusti in su, con piatti e campanacci a profusione. Fu anche compositore e cantante più che discreto, con una voce roca e profonda che non ti aspettavi da un involucro così ridotto. Due baffoni da messicano e un carattere guasconesco mai venuto meno completavano un quadro a suo modo interessante.

Una volta, in mezzo agli anni ’90, mi chiamano via radio da Corso Vittorio Emanuele: “Tenente, dovrebbe venire subito che qui…” “Che lì?…” faccio io. “Eh niente, deve venire”. Salto in auto e arrivo sul posto. Fila immane di auto che arrivavano a Porta Maggiore. In mezzo al viale, sdraiato in terra perpendicolarmente al senso di marcia, c’era Carletto. Faceva una croce con la linea di mezzeria, impossibile passare per un mezzo a quattro ruote.

Lì per lì tento di reprimere un moto di riso, ma era impossibile vista la scena: Carletto con loden e pantaloni a zampa d’elefante disteso con aria drammatica, tutt’intorno una folla di astanti che non sapeva come risolvere la cosa e tentava – inascoltata – di convincere con le buone il baffuto.

Gli vado sopra e lui come vede la divisa parte con la rivendicazione: “Questo è un sit-in di protesta perché qua tutti se ne fregano di me, e io non posso andare avanti”.

Mi accuccio al suo fianco e gli dico piano in maniera che mi senta solo lui: “Eddài Carlo, un artista come te. Manco a farti vedere così!”.

Non gli dissi altro, ma non potei non notare che la parola “artista” aveva sortito un effetto taumaturgico: meditò qualche altro secondo poi si alzò prendendomi sottobraccio.

Arrivati al marciapiede i colleghi stavano già ripristinando la situazione del traffico, mentre io cercavo di sottrarre Carlo dalla curiosità popolare. Ristabilita la normalità stavo rimontando in macchina quando lui da una decina di metri mi fa: “Ehi amico, puoi venire un attimo?”. Gli occhi erano tutti su di me. Mi avvicino, lo porto in disparte per non alimentare la curiosità delle persone rimaste lì.

Mi guarda un attimo, sorridendo, e mi fa: “Non è che ciai diecimila lire?”.

Le ho sempre considerate – e oggi più che mai – le diecimila lire più ben spese degli anni ’90.

La tigna de la Rua


La Rua

Ecco, questa è una delle cose che dico da anni.

La Rua​, ex Champions Liga​. Questa band che ha cominciato a fare veramente sul serio nella musica leggera. Partita da un progetto tribute, con sforzo si è liberata dalle incrostazioni che da esso derivavano. Con metodo ha rincorso un suo stile, anche cadendo qua e là, ma poi – aiutata anche da un fuoriclasse come Dario Faini​ – ha trovato alla fine una quadratura coerente e intrigante. Certo all’inizio la scelta del nu-folk ha lasciato tutti interdetti, ma hanno avuto ragione loro.

Quello che caratterizza La Rua, il suo cantante Daniele Incicco (un treno Intercity) e tutti gli altri è l’adesione a un progetto, e soprattutto il gran lavoro per realizzarlo. Non si tratta di musicisti che lasciano stecchiti, ma hanno coltivato nel corso degli anni una coesione e una sagacia propositiva di ottimo livello.

A me ricordano – non certo per il genere ma per l’approccio – i Duran Duran. Di questi ultimi tempo fa ho letto la storia: da quando 17enni si unirono insieme per formare una band ebbero sempre in testa il proposito di migliorarsi. Ognuno di loro si impegnò come meglio poté, ognuno studiò, ognuno lavorò sui suoi punti deboli, fecero prove estenuanti, litigate omeriche, ma alla fine uscirono fuori alla grande. E non c’è niente da dirgli ai Duran Duran: anche io ai tempi preferii i Simple Minds e i Depeche Mode (anche di tanto), ma ho sempre riconosciuto a Le Bon e soci la tigna.

La stessa tigna io la ritrovo in questa band della nostra città, che ho visto nascere e poi crescere, ho visto faticare, talvolta retrocedere ma sempre per poi fare un passo più lungo. E’ quello che la maggior parte di chi si mette a fare musica non capirà mai: anche se hai un Michael Jackson dentro di te, se non lavori, se non ti impegni non vai da nessuna parte. E oggi, più che mai, ti devi impegnare tanto.

Auguro a La Rua (che seguo da lontano con simpatia) di ottenere quello per cui stanno lavorando indefessamente da almeno 10 anni, e auguro che la loro storia serva da esempio a chi cincischia in un mondo autoreferenziale pensando di essere il nuovo The Edge o il nuovo Elvis. E invece qua ce vo’ lu sudà, altroché.

Questo dico da anni, e lo consiglio a qualsiasi ragazzo che conosco.

LA RUA A CANALE 5

Bring the boys at home


Waters

Roger Waters – The Wall” è un film che ognuno dovrebbe vedere. Parte dal pretesto del concerto di Roger Waters, tenuto nonsodove nel 2014 (comunque in terra francese) ma è molto più che il didascalico resoconto di uno show. E’ n’esperienza, come direbbero i romani.

I piani di lettura dell’opera, come si sa, sono molteplici, e anche tornando dal cinema con Marco e Paolo si discuteva se fosse più importante, per Waters, il tema del rifiuto della guerra, quello della politica, quello della violenza dell’educazione, quello dell’incomunicabilità dell’individuo, o tutt’e quattro in parti uguali.

Certo è che Waters è un tipo piuttosto fulminato. I suoi temi scottano le mani, le sue parole sono sempre crude e affilate come rasoi, il suo atteggiamento sempre speculativo. Nondimeno però, e la cosa suona strana in chi come me ne aveva altra idea, Waters si lascia andare finalmente a qualche timido tremore sentimentale: se ne trova eco tra i dialoghi che scambia con i suoi accompagnatori in auto nel viaggio che lo condurrà, come ultima tappa, ad Anzio ove il padre morì in battaglia nel 1944. Ma soprattutto ve n’è evidenza nella riflessione, che fa con un filo di voce in auto, quando racconta del vecchio reduce che gli strinse le mani guardandolo negli occhi dicendogli: “Tuo padre sarebbe stato fiero di te“.

La presenza di Eric Fletcher Waters nella vita di suo figlio è palpabile in ogni parola che Roger dice o pensa, in ogni nota che suona, in ogni gesto che fa sul palco. E la pena sofferta da Roger nel corso di un’intera vita, quella di aver perso un padre senza averlo mai conosciuto, diviene paradigma di un disagio esistenziale profondo, lancinante.

Le lacrime della ragazza sotto al palco, lo scrollare la testa a occhi chiusi del ragazzo del pubblico, o il grido convulso e liberatorio di tutta la platea su “Another brick in the wall” o su “Comfortably numb” divengono celebrazione fisica e spirituale, e in parte – inevitabilmente – condivisione del dolore. Ha un bel sorridere Waters, ma non la riesce a raccontare a nessuno. Spero abbia fatto pace con il suo subconscio problematico, tantopiù che finalmente ha scoperto come andò nel 1944, dove e come il suo Eric abbandonò la vita.

Di tutta l’opera rock, a distanza di ben 35 anni dal giorno in cui la puntina del mio giradischi si posò per la prima volta sul disco bianco scritto a inchiostro, mi rimane ancora oggi il grido che riecheggia più di una volta tra i solchi: “Bring the boys at home“, riportate i figli a casa. Che poi è quello che né Roger, e per soprammercato nemmeno suo padre Eric, hanno visto realizzato, giacché anche il vecchio minatore, padre di Eric, era morto durante la Grande Guerra quando quest’ultimo aveva due anni.

Nessun grido diverso da “Bring the boys at home“, per mio conto, può descrivere quello che ogni figlio del cielo dovrebbe pensare della guerra, e nessuno l’ha saputo dire meglio di Roger Waters, dai più conosciuto come bassista dei Pink Floyd.

La città di Cecco

fontana

Questa foto, nella quale due personaggi ameni si bagnano alle 4:15 di notte nelle fresche acque di una fontana al centro di un incrocio importante della città, documenta l’inestinguibile passione del popolo ascolano per i colori bianconeri.

Per chi non lo sapesse (ma deve venire da Marte), l’Ascoli è in serie B per effetto di una sentenza che ha visto condannare un’altra squadra per illecito sportivo.

E aggiungiamo: c’è chi ha già schedulato la pedalata verso Loreto, chi è partito di presta mattina per la cima del Vettore, chi ha già portato i suoi ringraziamenti a Middie nuostre iò la cripta.

Il due aste lasciato a bordo vasca dice: “Noi Bellini… voi mica tanto“.

Sempre a beneficio degli extraterrestri, riferisco che Bellini è il nome del presidente del redivivo Ascoli.

Al di là del fatto che uno dei personaggi in questione – quello che in foto se la ride beffardo – è nato a casa mia, sono veramente contento di essere nato tra il Tronto e il Castellano.

Ascoli si conferma città della satira come poche altre, d’altronde non discendiamo da Cecco a caso.

Pasta estiva

Pasta estiva
E’ bello curiosare tra le ricette altrui. Se ne trovano di molto appetitose, e se uno trova il tempo per appuntarsele poi può cercare di rifarle. Anche io mi diletto con la cucina, che anzi considero uno dei più grandi piaceri della vita. E oggi mi piace condividere quello che considero il piatto dei piatti estivi: una pasta semplice semplice che non può mancare di deliziare le papille nel contempo risultando leggera e fresca.

La salsa si prepara nel tempo di cottura della pasta. A proposito, la pasta: oggi mi sono concesso un Alce Nero, pennette di grano duro Senatore Cappelli. 2 maledetti euro e 20 per mezzo chilo, ma ne vale la pena. Ho completato la spesa con 50 centesimi di pomodori datterini (una quindicina circa).

Nel padellone un filo d’olio di oliva, uno spicchietto di cipolletta bianca a soffriggere in solitaria. Ho aggiunto un filo d’acqua calda per non farla bruciare. Prima ho buttato i pomodorini nell’acqua della pasta che stava quasi bollendo, dopo tre minuti erano già tutti spaccati e li ho scolati, spellati e schiacciati con una forchetta.

Ho buttato la purea ottenuta con mossa scenica dentro la padella, aggiunto tre foglie di basilico spezzettate grossolanamente e salato quant’appena, come direbbe il mio caro amico Nick.

Tirato via il povero Senatore Cappelli molto al dente l’ho tuffato nella padellona, ho aggiunto un mestolo d’acqua calda della pasta e ho portato a cottura.

Servita con guarnizione di fogliolina di basilico fresco, pure se stavo da solo.

Per me non c’è niente sopra, d’estate.