Chi volete libero

UN VENEDI’ SANTO ATIPICO

La lettura, effettuata in bagno come sempre, dello splendido “Vangelo secondo Gesù Cristo” di José Saramago mi ha indotto più volte a pensieri ieratici, e questo venerdì santo non ha fatto eccezione.

Si sa che Gesù di Nazareth non fu giustiziato per delitti contro la persona o il patrimonio ma per un gravissimo delitto politico: all’epoca quello di autoproclamarsi re in presenza di un altro re. E un re pericoloso per giunta, primo perché poteva promettere la beatitudine eterna, secondo perché aveva migliaia di persone che lo seguivano.

Un influencer d’antan, una specie di Chiara Ferragni di Galilea.

Oggi proclamarsi re, tipo, in Italia porterebbe la gente a non darti il minimo credito e i media a non cagarti di pezza. In un eventuale processo – sempreché si riuscisse a mandare a giudizio uno spostato che si dichiara re di tutti gli uomini –  l’avvocato invocherebbe l’infermità mentale e il Nazareno il giorno dopo girerebbe di nuovo tranquillo per le strade.

Quindi il reato politico odierno dev’essere ben più grave.

E per essere grave abbastanza deve toccare l’intoccabile: ad esempio la polvere sotto i tappeti dei potenti.

Che è quello che ha fatto Julian Assange, che per aver reso pubblici con WikiLeaks interi archivi secretati di crimini di guerra statunitensi in Afghanistan e Iraq ha subito una caccia all’uomo che non si vedeva dai tempi del mostro di Milwaukee e che al momento sta scontando una pena fondamentalmente inventata in un luogo molto meno che ameno in Inghilterra, tra tendenze suicide (vorrei vedere voi) e attesa di estradizione verso il paradiso d’oltreoceano, non dico tra l’indifferenza generale perché gli permangono dei fans che hanno capito la portata di quello che ha fatto (tentato di fare) per il mondo, ma con un disinteresse fattivo di rara portata.

A Gesù, per assurdo, è andata meglio: almeno non è stato sottratto dai riflettori, stava pure al centro tra i due ladroni e ben in vista in alto, s’è guadagnato la gloria imperitura inchiodato per i polsi a una trave. Cioè capito: soffro come un cane ma almeno assolvo a un compito alto, e nel farlo compiaccio pure mio padre. Ad Assange nemmeno quello: è l’oblìo la vera condanna odierna. Come in “1984” di Orwell, per non andare troppo in là.

Chi volete libero, Assange o Barabba?

Pensateci, quando vi passa sul telefonino l’ennesima richiesta di supporto di Free Assange, tra una litigata della Ferragni e l’ennesima gaffe di Elettra Lamborghini.

Il tifoso occasionale (coming out)

Ho constatato che nella mia città l’accusa di TIFOSO OCCASIONALE ha sostituito, negli ultimi tempi, ogni altro tipo di offesa fortemente infamante. Sembra che dare del tifoso occasionale alle persone sia diventato il nuovo must per chi ha in animo di demolire il conversante che gli è di fronte, sminuendone le potenzialità tifatorie e l’amore per i colori bianconeri (del bianconero giusto, s’intende).

Nota per i non iniziati: il tifoso occasionale è quello che non ha l’abbonamento allo stadio, oppure non va in trasferta, o che se ne fa poche, e soprattutto è quello al quale può capitare di indulgere alle simpatie anche per altri team (solitamente veleggianti in altre serie). Per esempio ha simpatie pure per l’Inter, la Juve, la Roma, il Napoli quando non addirittura il Barcellona o il Manchester United.

Io sono nato in Ascoli e porto l’Ascoli, ma pure a me capita di simpatizzare per questo o quell’altro team a seconda dei momenti o delle occasioni, chiaramente sempre conservando una idiosincrasia di nascita per i gobbi e continuando a portare solo l’Ascoli giacché il calcio minore non lo seguo con troppo interesse.

Tempo addietro – disgrazia nelle disgrazie – l’accusa di occasionalita’ fu rivolta perfino a me, chiaramente da un sedicente tifoso professionale, in occasione di una mia esortazione a sorridere ed essere ottimisti invece di lamentarsi sempre e stare incarogniti su tutto.

Apriti cielo, e inghiotti il becero tifoso occasionale!

Il sanguigno conversatore esordì dicendo: “Voi che tutto l’anno portate la Juve nen me petete venì a dì…” ma già avevo staccato la spina delle orecchie giacché non ne valeva la pena. Inutile spiegargli che seguo l’Ascoli da Del Duca-Samb del 1969/70 (la prima mia partita in assoluto: gol su rigore del capitano Abramo Pagani con fucilata a mezz’aria alla destra del portiere), ricordo la doppietta di Quadri la palombella di Nicolini il gol dal fondo di Casagrande e pure la capocciata di Pircher che nen s’era accuorte ch’avie’ segnate all’Inter.

Al concetto di tifoso occasionale fa da contraltare, com’è noto, quello di Ultras, che per certa letteratura è depositario di tutte le qualità che mancano all’occasionale: prima fra tutte la mentalità ultras, concetto non banale che ha una sua etica e una sua onorabilità e che, sebbene non abbia mai praticato, istintivamente rispetto. Mi capita di riconoscermi più nella sportività, che a volte ti fa applaudire la squadra avversaria che gioca bene, compresa quella nemica con l’unica inevitabile eccezione dell’inapplaudibile team del pan cu’ l’olio.

E quindi la concatenazione di eventi che sembro’ ridurmi al rango di tifoso occasionale – a me che vado al Cino e Lillo da 52 anni avendone pochi di più – un po’ mi fece sorridere un po’ mi indispose.

Ma nen è che ce so’ pierse lu suonne sa’.

Freaks Out

Sono andato a vederlo, sebbene pensassi aprioristicamente che non fosse il mio genere preferito. Solo che Mainetti dopo Jeeg Robot mi poteva fa’ pure una frittata all’aborrito formaggio, me la sarei magnata tanto l’ho stimato nell’opera prima.

Pensavo a un filmetto, e invece porcozzìo. E questo non è un giudizio qualitativo, ma proprio un’analisi della pellicola dal punto di vista finanziario, giacché non so quanto ci sia voluto per realizzarlo in termini di piotte ma è un’opera veramente notevole, sia come effetti speciali che come ricostruzioni delle ambientazioni che come impiego di risorse in generale.

Freak Out è un caleidoscopio di diversi generi, con continui riferimenti al grande cinema: il richiamo a Fellini è lapalissiano fin dalla prima scena, ma anche il gusto tutto zavattiniano per l’immaginifico è fortissimo (bellissima l’immagine dei circensi sparati in aria che volano sotto la luna, una sorta di ET senza bicicletta o, se vogliamo, degli spazzini verso il cielo del finale di Miracolo a Milano).

Il plot, così come i dialoghi, attraversa vari registri (evitando con cura quello sentimentale) sempre rimanendo borderline, a un passo dal grottesco ma senza scadervi completamente dentro: memorabile – fra le altre – la rappresentazione della partigianeria, accozzaglia improbabile di reduci feroci e spavaldi ma soprattutto irresistibilmente comici, capitanati dal gobbo Max Mazzotta, uno dei miei caratteristi preferiti nell’attuale cinema italiano.

Il sentimento qui non viene sparso come miele sulla testa degli spettatori come succede in certa produzione americana: te lo devi andare a scovare tra le pieghe delle espressioni dei personaggi, tra le parole smozzicate o addirittura non dette, negli sguardi di Matilde o nelle citazioni finto-dotte del Lupo (o magari dotte davvero, ché il Lupo è personaggio di gran vaglia). Ed è proprio questa immarcescibile tendenza alla ricerca del sentimento che ti fa arrivare, per assurdo, a simpatizzare per il crucco senza una rotella che suona i Radiohead per effetto di una trovata narrativa singolare.

Ma è proprio tutto il film a essere cosparso contemporaneamente di violenza e risata, di drammaticità e corbelleria, di banalità e spettacolarità. E di poesia, molta anzi moltissima, come quella di un biondo che doma le lucciole o di un irresistibile direttore rumorista, ma anche di trivialità, anche quella cosparsa in buone dosi e apparentemente gratuita, come il tipo che non perde occasione per esplodere nell’onanismo. Ognuno è rappresentato nella sua umanità, nient’affatto decifrabile in maniera univoca: come ognuno di noi, ogni personaggio reca in sé le sue sfumature che spaziano dal giallo al ciano al magenta al nero.

A mio avviso è un film da vedere, sì in tutte le due ore e quasi mezza, perché comunque andranno le cose, cioè se piacerà o meno, si verrà risucchiati da un mondo fantastico in mezzo a storie bislacche e a personaggi degni di una fiaba di Dickens.

Si toccano temi importanti, anche, come la forza della gratitudine, la pesantezza della diversità, il rapporto tra la prevaricazione e la resistenza, l’influenza dell’infanzia sulla nostra storia personale, l’importanza dell’incontro delle anime simili. Il tutto non necessariamente detto esplicitamente, tutto un po’ da scoprire. Non si piangerà mai, al contrario scapperà una risata nel mezzo di una scena cruenta per una battuta ai limiti dell’assurdo, un po’ Chaplin un po’ Tarantino (“T’avevo detto che t’ammazzavo” dice il Lupo all’orecchio dell’aguzzino in un passaggio strepitoso).

Non mi è bastato solo un giorno per ragionarci sopra, me ne prenderò altri per focalizzare meglio passaggi apparentemente meno significativi. Ma l’impressione è che – come dice la mia amica Barbara – questo sia un film che ne contiene venti.

Mainetti s’è spise tutte lu cucuzzare, ma mi sa che piglierà più d’un premio.

L’inimitabile

Se ne va con un coup de théâtre nel giorno dei suoi 80 anni

Quando, nel valutare i tanti pezzi comici a disposizione, mi apprestavo a mettere su il mio spettacolo “Revolution Comic Songs” con la Peto’ Band, che sarebbe piaciuto così tanto al pubblico, ho considerato anche l’ipotesi di buttar dentro qualcosa di Gigi Proietti. Il più grande. Era una sfida con me stesso, ne ho fatte tante, perché non quella.

Mi sono studiato per tre giorni la sua inimitabile “Nun me rompe er cà“, uno dei pezzi che preferisco e che è compatibile con il mio repertorio. L’ho imparato a memoria, interiorizzato, provato. Andava.

Poi un giorno ho fatto, per scrupolo, la prova dello specchio, quella che mi fa decidere per il sì o il no per qualsiasi cosa che voglio fare nel ramo artistico, sì quella tanto sconsigliata dai professionisti, quella. Il paragone era improponibile, mi mancavano un paio di requisiti fondamentali: la faccia, la voce. Forse la credibilità.

E in un repertorio coagulato intorno alle canzoni satiriche dei più grandi (Zalone, Benni, Nosei, Marcoré, Carena, Oblivion, Nuti e, indegnamente, anche qualcosa di mio) non sono riuscito a infilare qualcosa del più grande di tutti. Cioè del mattatore che, visto al Teatro Olimpico negli anni 90, mi aveva tenuto incollato lo sguardo su di lui per tre ore di spettacolo senza una pausa, aiutato solo da un baule con qualche oggetto dentro e dal suo proverbiale tocco di matita sotto agli occhi per dare profondità allo sguardo.

E’ una sfida più di persa: è una sfida mai cominciata. Perché come non provo a rifare il sugo finto di mia madre, non provo a rifare i pezzi di Gigi Proietti. Non si può imitare l’inimitabile.

Il grande Fonzi’

Un post scritto su un gruppo Facebook da un ascolano che risiede all’estero mi ha riportato alla mente uno dei personaggi ascolani che io abbia stimato di più. Mi piace ricordarlo qui, in pubblico, ed è l’amico Fonzì. Sì, amico nonostante appartenessimo a generazioni diverse. Era amico di mio padre, così come di tanti altri padri dei ragazzi con cui andavo nel suo locale (tipica la frase che rivolgeva sempre al mio amico Pietro quando quest’ultimo faceva il matto: “Attente Girardi che i’ cunosche pàrtete!“).

Famosissimo perché da lui si mangiava con 12.000 lire. Finì pure sul giornale come locanda a più buon mercato del centro Italia. E poi non è che ti dava due boccolotti, con 12.000 lire ti dava i tortellini, la cotoletta, le patatine e ti passava pure da bere. Un mito assoluto della nostra gioventù, sempre allegro, sempre disponibile, un ascolano verace che parlava in dialetto e ci faceva pisciare sotto per le risate.

Con i Nerkias (al tempo eravamo compagni di scuola) siamo andati decine di volte a mangiare da lui, e sulle tovaglie di carta scrivevamo i testi delle canzoni che ci uscivano a cena, molte delle quali poi sono finite nei nostri album. E se alla fine della cena ciavevi 10.000 lire, faceva una faccia noncurante e ti faceva lo sconto (“Vabbè pure 10.000 dài, nn’ié magnate cósa…“, fingeva), pure se papà lavorava all’Enel e, cazzarola, 2.000 lire in più me li petié pure dà (ma io magari ci avevo comprato un disco). Credo di dovergli ancora una cifra non inferiore alle 50.000 lire.

Poco accondiscendente nei confronti di chi gli parlava entusiasticamente dell’affascinante figliola Cinzia (gli cambiava lo sguardo), era invece fraterno con chiunque entrasse nel suo locale, dove non esisteva il LEI ed eri sempre accolto con un sorriso: “Ciao Piccioni, come sta pàrtete?“). E a chiunque sia entrato direttamente in cucina, con lo sguardo basso, nel corso degli anni non è mai stato negato un pasto auffa (tipica la frase di Fonzì: “Pe’ magnà ce vo’ li forchette, no li solde“).

Grande personaggio, ma grande davvero, un personaggio del popolo che non ha governato la città né è appartenuto a gruppi politici o sociali rilevanti, ma che (forse proprio per questo) nella sua maniera colorita e folcloristica è stato uno dei più grandi esempi di signore che io conosca: il signore vero, quello dell’animo.

Tenet, e altro su Nolan

(no spoiler)

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Fermo restando che chiunque non abbia ancora visto Tenet meriterebbe di essere spoilerato senza pietà (ormai sono passati 4 giorni, un’era geologica).
E sì, ci va il punto, anche se contrasta con le regole insegnatemi dalla maestra Anna alle elementari.
Tenet è l’undicesimo film di uno dei più grandi registi contemporanei, Cristopher Nolan. E i film dei grandi talenti si vanno a vedere subito: Tarantino, Coppola, Scorsese, Sorrentino, Boyle, Nolan appunto. Non è che puoi stare alla ricasca dei commenti (il più delle volte parziali, quand’anche non preconfezionati, nel bene o nel male) resi da spettatori avventizi, o peggio da miocuggino.
E’ una storia che gira attorno al paradosso concettuale di una dimensione spazio/temporale palindromica, a cui va riconosciuto un imponente fascino immaginifico che comunque è il minimo che ci si aspetta da un regista così titolato.
Va detto che la grande accusa che fanno al Nolan regista è quella di collezionare opere dallo spento fermento emotivo, un po’ come dire: “Cazzarola che film! Ben pensato, ben realizzato!” ma poi non riesci a ricordare un momento in cui sei stato realmente scosso, emozionato, in tutta la pellicola.
Non sono d’accordissimo con questo assunto: a me il suo capolavoro assoluto Interstellar è piaciuto proprio per quelle tre o quattro emozioni fortissime che mi ha lasciato (a braccio: il muro d’acqua, lo scavalco della barriera spazio/temporale e il reticolato delle occasioni alternative, il contatto tra padre e figlia a cavallo del tempo e dello spazio).
Qui no: non un momento di vero pathos, di cuore. Un po’ come in Inception, film perfetto ma freddo, ma che vanta a suo favore una trama e un argomento non impossibili seppur non immediati. In Tenet l’obiettiva difficoltà della materia del trattare inficia una visione serena, come dovrebbe essere a mio avviso per ogni film (ok pensare, ma starsi a scervellare auffa non è il mio sport preferito).
Poi è chiaro che da amante del cinema non posso non apprezzare la perfezione della girata e dell’editing successivo, che tra l’altro ha richiesto anni di elaborazione (un po’ come successo all’Irish Man di Scorsese, con analoghi risultati: meraviglioso filmicamente, ma fiacco emotivamente).
Sono film che non rimangono nella coscienza, anche se forse rimarranno comunque nella storia del cinema come prodotti di registi di assoluto valore.
Potrei sbilanciarmi nel vaticinare per il prossimo oscar statuette minori per questo film, ma non lo farò: a volte in America esistono dinamiche strane (l’oscar a Brad Pitt per C’era una volta a Hollywood grida ancora vendetta, e il mancato oscar a Morricone per La leggenda del pianista sull’oceano ancor di più).
E comunque, anche a voler spoilerare di Tenet non avrei saputo che dire. Che ne so, m’è sembrato una sorta di James Bond ancora più spinto, e se dico che non ho visto manco un James Bond si capisce quanto questo film stia sull’archetipo.
Attori bravissimi (Branagh su tutti direi, ma è una mia debolezza), con una citazione particolare per il tonicissimo Robert Pattinson che in questo momento ci va tanto di moda. Il protagonista, pur azzeccatissimo, ha due espressioni: quella con gli occhiali da sole e quella senza. Come Clint Eastwood – con cappello o senza – e vista la sfavillante carriera di quest’ultimo non posso che tacere i miei istintivi vaticini nei confronti del nero di Tenet.
Non è un film inutile – e come potrebbe? – anzi alla fine dei conti è un bel film. Ma io da Nolan, come da Tarantino, voglio solo capolavori, altro che la storia di James Manson col lanciafiammino o l’intrigo autocompiacente del palindromo spazio/temporale.
Che se puo’ une ghie lu va a chiede, il sospetto è che nen sa manche isse che velié dì.
Voto 7,5, e t’aggio trattato caro Nolan. Ma, come mi disse la prof di biologia in quinto, avrei voluto metterti nove.

La ciammarica

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Si dice che la prima volta con una donna possa non essere soddisfacente al massimo perché ti porti dentro troppe paure, troppi timori che rovinano l’atto più bello del mondo. Ma anche la tua prima partita della squadra del cuore può fare questo effetto.

Dopo mesi di insistenze, approfittando della bella giornata (avevo appena sei anni) riuscii a convincere il sor Emiddio a portarmi con sé allo stadio. C’erano i suoi amici più cari di allora: Piero, Giuliano, Basilio e credo anche Peticcia. Io ero l’unico bambino della compagnia. Al Cino e Lillo si affrontavano Ascoli e Sambenedettese, insomma: come cominciare col botto l’avventura nel calcio guardato! Ma arrivai all’appuntamento con qualche timore di troppo: avevo sentito di botte tra tifosi, della pericolosità di un ambiente che nel mio immaginario era fatato e stimolante ma che le cronache davano per pericoloso e potenzialmente violento.

In curva nord, con solo la parte di sotto disponibile (la parte di sopra sarebbe arrivata con la serie A) me ne stavo nel mio cantuccio al fianco di papà. Lui parlava con i suoi amici, io registravo nella mia mente tutto quello che accadeva. La formazione fu un’emozione fortissima: come gli altoparlanti staccarono il nome di Campanini si levò un grido di guerra che sentivo per la prima volta, e che mi avrebbe conquistato ogni volta nel corso degli anni 70.

Ho visto vincere l’Ascoli con l’Inter, rifilare un 2-0 alla Juve campione del mondo, Agostini segnare in rovesciata uno dei gol più spettacolari di sempre. Ho visto Gullit mettersi in ginocchio con le mani giunte di fronte a un cartellino rosso, Pircher non accorgersi di aver infilato l’Inter di nuca. Molte cose ho visto dopo quella giornata del 1970. E ho sempre esultato come un invasato, anche quando non sarei in condizione di farlo (chi mi conosce sa perché).

Ma quella volta, quando l’arbitro concesse un rigore ai bianconeri e il libero Pagani lo insaccò, in mezzo al Maracanà non trovai il coraggio di esultare e rimasi seduto. Un po’ come quando “ti fai la prima” e rimedi una figura così-così. Potrai andare pure con Julia Roberts in seguito, ma se all’inizio con la compagnetta di giochi del piano di sotto non sei stato in grado di reggere bene l’emozione, ti rimarrà sempre quel piccolo rincrescimento.

Vorrei poter tornare indietro a quel giorno, e nel momento in cui il siluro di Pagani si insacca vorrei, oggi per allora, abbracciare mio padre e dargli un bacio sulla guancia: “Grazie papà per avermi portato con te!”

Innamorato dell’Ascoli, il primo amore non si scorda mai. Pure se ié fatte nucco’ ciammarica. (*)

 

(*) effetto ciammarìca (lumaca): ad Ascoli, barzottatura dell’organo durante l’atto sessuale

Il lamento del fabbro nudo

50lire

Chi non ricorda le vecchie 50 lire? Ci usciva, nei nostri anni ’70, un ghiacciolo semplice, mai un Arcobaleno né, ancor peggio, quelli “buoni”, ovvero ricoperti di cioccolato, oppure i Cuccioloni col biscotto. Quelli costavano 100, perfino 200 lire.

Ti ritrovavi queste 50 lire per effetto di un favoretto che avevi fatto a tuo padre (aiutarlo a infiascare il vino, a lavare la macchina, a annaffiare l’orto) e correvi felice verso il baretto per gustarti il gelatino all’arancio nella canicola estiva.

Capitava, a volte, di incantarsi ad osservare la figura che era ritrattata nel retro della moneta: un misto di forza ed eleganza rappresentata da un giovane fabbro, nudo, che batteva sull’incudine con una mazza. Spesso – chi non lo ha fatto? – ti veniva da pensare che, nelle sue condizioni, era n’attimo andare a finire sul piano dell’incudine con gli accessori pendenti, e allora sai che gniaulìi!

L’atteggiamento di certe persone che nella vita preferiscono guardare, in un bicchiere pieno all’80%, il 20% vuoto mi fa pensare a quel giovane fabbro che decide motu proprio di mancare il bersaglio e squagliarsi una palla sull’incudine. E’ successo ad Ascoli, recentemente, anzi direi che nel calcio – e quindi anche ad Ascoli – succede spesso. Spiegazione dell’antefatto, per i non ascolani o i non appassionati di calcio: i bianconeri in evidente crisi di risultati riportano 3 punti di platino da Padova, battendo l’affermato Cittadella in corsa per il primato della B. E che ti fanno i lagnosi piceni: cominciano il lamento del fabbro nudo.

E che culo, e hanno ammonito solo loro, e l’arbitro facié a parte che nu’, e s’è nventate l’espulsione, e Perez nen è de categoria, e Giorgi è rutte, e Aglietti nen è tutte quelle che se decié, e Bellini caccia ssi solde, e se a gennaio nen chempreme na limana ce n’arieme dritte in Lega Pro, e la tribuna chisà quant’è pronta, e era megghie che invece del centro sportivo ce chemprava Marilungo, e senza ferrovia Ascoli-Roma è nu brutte campà, e in America tante è Trump e tante è la Clinton, e che c’è mannate affà la sonda Schiaparelli su Marte.

A questo punto la palla è spappolata, le ciuette-inside felici e il mondo adeguatamente grigio. E questo – beninteso – succede spessissimo dalle nostre parti.

Da quanto sopra un semplice assunto. Fate vobis per l’atteggiamento da adottare con i fabbri svestiti, ma io adotto il mio: indifferenza totale e senza quartiere. Non permetto agli altri di sporcare il mio cielo. Verrà il tempo per reincazzarsi per un risultato bugiardo, una prestazione meno che dignitosa, una caterva di gol mancati. Nel frattempo, però, preferisco vivere. Vivere sereno mentre il fabbro gestisce torvo il suo dolore, consolato solo dallo spargere malessere, dal provocare flames, dal rovinare l’attimo, dal gestire l’umore altrui.

Il cavaliere felice

 
Lionetti 1

Se nella Quintana d’agosto 2015 ci aveva colpito l’applauso tributato da tutto lo Squarcia a Emanuele Capriotti dopo la sua ultima tornata quintanara, quest’anno il momento più emozionante è stato sicuramente l’abbraccio tra il piccolo Nicholas Lionetti della Piazzarola e la madre, qui documentato da una bellissima foto rubata a Luigi Ianni.

Così come Alessandro Florenzi con la nonna, anche Nicholas – ricordiamolo sempre, 17 anni! – zompa la ramata e va a incassare un quintale di bacetti dalla mamma, felice come una pasqua.

Ma direi che Nicholas ha proprio corso da cavaliere felice: l’ultima parte della terza tornata, dopo l’ultimo curvone, era proprio raggiante, aveva le ali ai piedi e un’espressione sul viso da folletto terribile. Anche qui, mi soccorre la bellissima foto dell’amico Davide Valenti, che ben ha saputo cogliere l’attimo.

Lionetti 2

E non è un caso che Nicholas sia stato l’unico cavaliere del 2016 ad alzare la lancia dopo aver finito l’ultima tornata: lui a quel punto la sua personale Quintana l’aveva già vinta correndo alla pari con i grandi, e tutto lo stadio infatti lo ha applaudito con simpatia e ammirazione.

Certo altro si potrebbe dire di una giostra un po’ sottotono e di accadimenti poco edificanti, ma perché? Alla fine ciò che ricorderemo è la scena di tutta la tribuna in piedi ad applaudire l’abbraccio stritolante di una signora bionda a lu frechì suò.

Pelè, 1958

PELE

Ero piccolino quando papà mi snocciolava la formazione del Brasile del 1958: Gilmar, Djalma Santos, Nilton SantosZito, Bellini, OrlandoGarrincha, Didi, Vavà, Pelè, Zagallo. Me la sono imparata perfino io nel corso degli anni, unica formazione che ricordo a memoria senza esitazioni insieme a quella dell’Ascoli che passò per la prima volta dalla serie C alla B (Masoni Vezzoso Schicchi, Pagani Castoldi Minigutti, Colombini Vivani Bertarelli Gola Campanini).
Solo che io nel 1958 non ero nemmeno un progetto nella testa dei miei genitori, che ancora non si conoscevano.
E’ per questo che sono andato a vedere il film “Pelè“, ieri, con mio figlio. Lo dovevo ad anni e anni di racconti di mio padre: le gambe storte di Djalma Santos, le ubriacanti discese a zig-zag di Garrincha, la potenza di Vavà, la velocità di Zagallo e naturalmente, sopra a tutti, l’infinita classe del diciassettenne Pelè, un fagiolino di 1,70 metri che all’Italia, nel 1970, in finale fece un gol di testa alzandosi un metro da terra che ancora Burnich se lo ricorda.
Il film è straordinario, bellissimo. Non può non piacere a chi ami il calcio, ma anche a chi non piacesse questo sport lascerebbe comunque una scia di emozione, essendo storia di sofferenza, di amore, di impegno, di riscatto.
E quando, nelle scritte finali, si ripercorre la carriera di Pelè successiva a quella magica estate del 1958, il momento più bello è quando appare l’unica cosa che Pelè non è riuscito a fare, cinque gol nello stesso match. Cosa riuscita in carriera a suo padre, giocatore come lui.
Un film che mi ha emozionato come pochi. Lo danno ancora al Città delle Stelle, io l’ho visto al Piceno e nella sala c’eravamo solo io e mio figlio di 12 anni, che alla fine della proiezione non ha potuto trattenere un’esclamazione: “Che filmone!”