Io e il signor G

Giorgio Gaber

Il mondo pullula di gaberiani. Essere gaberiano fa fico, fa intellettuale. Il gaberiano – così come il pasoliniano – ha sempre ragione nell’amarezza di ciò che dice, di ciò che cita. Se potesse tornare indietro Giorgio, anche per un attimo, quanta di questa gente manderebbe a ramengo. Proprio lui, sotto il cui ombrello un sacco di gente si dà convegno, il primo ad essere andato in giro per una vita senza alcun ombrello.

Ma perché è tanto difficile da capire questo personaggio?

Al festival di Gaber di Viareggio nel corso degli anni si sono visti sfilare articoli al limite della facezia. Pazienza per Pausini, Baglioni, Ruggeri, dài ci sta. Ma santa pupazza, pure la Marrone e Mengoni non me li aspettavo proprio a discettare dal palco di questo menestrello agrodolce che ha a suo modo rivoluzionato il modo di fare spettacolo in Italia. Ma che ci azzeccano con lui? Che cosa con il teatro canzone?

Perché Gaber, lo ricordo innanzitutto a me stesso, il meglio l’ha dato nel trentennio – trentennio! – in cui si è dedicato al teatro canzone. Io l’ho scoperto a causa della galeotta infatuazione per una bella ragazza, a suo tempo, che mi impose l’ascolto di una musicassetta di “Dialogo tra un impegnato e un non so”. Due ore di un pomeriggio a sentire una cosa che io all’epoca – abbacinato dalla musica rock degli anni ’70 e ’80 – non potevo mai pensare nemmeno che esistesse.

Poi Giorgio Gaber fece un concerto al Ventidio, una ventina di anni fa, forse meno. Fu un’esperienza memorabile, l’unica volta – insieme al concerto di Peter Gabriel di Marino di Roma – in cui ho pensato “Ecco, quello lì sopra vorrei essere io”. Ho cercato nel corso degli anni di studiare questi due grandi artisti, innovatori e assolutamente unici, per carpirne qualcosa. Ma a Gaber in particolare mi lega un particolare affetto per la sua italianità, l’amore per l’eloquio non banale, frammisto, composito, bianco e nero, grigio grigetto, l’utilizzo di un buon italiano (gran cosa l’italiano), il gusto per la battuta salace, non comica ma nemmeno sprezzante.

E sì, perché quello che emerge dall’opera di Gaber è soprattutto una (peraltro ben dissimulata) pietas per il genere umano, una specie di sentimento di condivisione solitaria, che sembra un ossimoro e invece è l’esatta natura del suo carattere e della sua posizione, solo apparentemente snobista e invece intrisa di reale addoloramento (dolore mi sembra troppo) per il destino della patria, della morale, della nazione, dell’umanità.

Oggi tutto ciò che parla di Gaber è santificazione. E’ stato detestato dalla sua stessa sinistra – lui marito di Ombretta Colli tarda roccaforte del Berlusca – perché ad essa non ha mai aderito veramente, detestato dalla destra per non averle mai risparmiato il suo disprezzo. Con “Destra e sinistra” ha menato uguale mettendo alla berlina l’intellighenzia radical chic e la protervia della destra sociale, tutti in un calderone di frasi fatte e catalogazioni da burletta.

Gaber non è quello della Torpedo blu come Fossati non è quello della Banda suona il rock o De Andrè quello di Marinella, si farebbe grave torto a tutti loro se lo si pensasse. Il monologo “Una sedia da spostare” (uno dei più belli di tutti i tempi, ci cominciò proprio lo spettacolo ad Ascoli) rende forse al nostro Giorgio miglior giustizia, insieme a tutta la sua produzione parlata del teatro canzone. E a differenza di altri intellettuali tipo Fo o Pasolini, il duo Gaber/Luporini ha sempre gettato là un seme, una parola, senza alcuna pretesa manichea, senza alcuna pretesa didascalica.

Fastidioso, scomodo, urticante, amaro. Così è stato Gaber, assolutamente al di sopra del miserando agone di certa politica, come piace a me. Uscendo da un suo spettacolo non potevi fare a meno di ammirarlo e volergli bene.

E l’ammirazione e il bene, di questi tempi, si riserva ormai solo ai propri familiari.

 

 

 

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